Orhan Pamuk a Napoli: «Come Manzoni, racconto un'epidemia»

Orhan Pamuk a Napoli: «Come Manzoni, racconto un'epidemia»
di Ida Palisi
Venerdì 30 Settembre 2022, 07:00 - Ultimo agg. 1 Ottobre, 07:59
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Sceglie Napoli, benedicendo la prima giornata del neonato festival «Campania libri», per l'anteprima italiana del suo nuovo romanzo, Le notti della peste tradotto da Einaudi, lo scrittore turco Orhan Pamuk. Una felice coincidenza, dice, perché Napoli gli ha portato fortuna: un mese dopo essere stato qui nel 2006 vinse il Premio Nobel per la letteratura: ampia ricompensa morale dopo aver invece perso il Premio Napoli (candidato con Istanbul). Il romanzo parla al nostro presente, pur essendo ambientato a Mingher, un'isola immaginaria del Mediterraneo, colpita dalla peste nel 1901 e governata dall'impero ottomano: è uscito in Turchia, infatti, nel pieno del coronavirus. Grande romanzo storico, racconta del diffondersi della peste e della lotta di un medico e di un giovane ufficiale per arginarla, ma anche dell'autoritarismo del governo, delle reazioni del popolo e di contrasti politici e religiosi. Per questo ha dovuto affrontare un'accusa di vilipendio nel suo Paese, 17 anni dopo essere stato accusato di aver offeso l'identità turca per aver parlato del genocidio armeno. Venne prosciolto nell'anno del Nobel. 

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Pamuk, rieccola a Napoli.
«Torno qui con molta soddisfazione.

Ci sono stato per la prima volta nel 1959, credo di essere stato più qui che altrove nel mondo. Mio padre ci portava in giro con l'automobile: andammo a Ginevra e poi venimmo a Napoli e mangiai la mia prima pizza, non ancora famosa in America. Ricordo i marinai della sesta flotta con le loro uniformi bianche. E poi ci sono tornato nel 2006, un mese prima di ricevere il Premio Nobel».

Il fatalismo per evitare il contagio ricorda l'atteggiamento del popolo di fronte al colera descritto da Matilde Serao. La conosce?
«Non conosco la vostra fondatrice. Osservo però, come credo abbia fatto lei, che c'è sempre in certi tipi di persone di fronte allo scoppio di un'epidemia grave, la tendenza ad affidarsi a una sorta di misticismo, alla magia. E le persone che scelgono questa strada sono quelle analfabete o che vivono in luoghi dove non vi sono medici a sufficienza, come accade nel mio romanzo. All'epoca dell'impero ottomano in una popolazione a maggioranza musulmana gran parte dei medici erano cristiani ortodossi, perciò il popolo era molto sospettoso verso di loro».

Ci sono molte similitudini con l'attuale pandemia.
«Allora le persone erano molto meno istruite e le comunicazioni molto meno sviluppate, per cui non ci si scambiavano informazioni su come affrontare la pandemia. Sotto il profilo etico il mio atteggiamento di scrittore di fronte a fenomeni come il ricorso a guaritori, maghi e mistici è che non vanno colpevolizzate né le persone che vi ricorrono né i governi ma va capito il perché. La gioia di scrivere un romanzo così non è di impartire valutazioni o giudizi moralistici troppo facili ma di cercare di capire le sfumature».

Lei cita Tolstoij e Manzoni. Quanto si sente vicino al nostro scrittore?
«Ammiro molto Manzoni, per un certo periodo sono stato editor di classici e ho curato la pubblicazione dei Promessi sposi, che penso siano il Guerra e pace italiano, una grande epopea. Il mio metodo è molto simile a quello di Manzoni: lui parla della peste del 600, io di una a cavallo tra il diciannovesimo e ventesimo secolo, ma come lui ho letto tomi e tomi di storia per fornire quanti più dettagli sulle metodologie impiegate, sulla quarantena e sugli altri rimedi».

Gli altri l'hanno narrata, lei una pandemia l'ha vissuta.
«Il libro l'ho pensato per 40 anni, l'argomento e la forma sono cambiati più volte. 5-6 anni fa Erdogan ha iniziato a mostrare il suo volto autoritario e mi sono detto: è questo il momento di scrivere il mio romanzo. Ci ho messo tre anni e mezzo per finirlo e intanto è scoppiato il coronavirus: editori da tutto il mondo mi hanno riempito di email perché lo finissi in 5 mesi! I miei personaggi hanno avuto meno paura della peste di quanto ne avessi io del Covid e penso di aver instillato i miei timori in loro».

Come si è documentato?
«Sono andato a riprendere i cataloghi dei magazzini Harrods del 1897, l'anno della peste. Tutti gli oggetti quindi che utilizzano i miei personaggi erano di manifattura europea e d'uso comune in quel periodo. Ho letto poi molte relazioni dei medici britannici che tentarono di arginare l'epidemia di peste nel 1897, scoppiata in Cina, con una strana coincidenza con il coronavirus di oggi. Furono impotenti di fronte alla morte di 20 milioni di persone».

Quanto rassomiglia l'isola di Mingher a Istanbul?
«Il desiderio di modernità della popolazione è lo stesso. Ho voluto proporre questa isola come modello di una piccola nazione, dove viene inventata una nuova repubblica sulla base della lingua e di tante altre cose. E poi c'è il senso della perdita. Il senso del declino e della sconfitta che vale anche per Istanbul dove adesso la voce politica che sovrasta le altre è quella del partito di Erdogan che se ne viene fuori con l'idea di mettere sul piedistallo l'impero ottomano. Io non ho mai detto che non mi piace ma semplicemente da scrittore ho deciso di occuparmi del suo declino anziché glorificare le vittorie militari del passato impero».

Come considera il ruolo della Turchia nel conflitto tra Russia e Ucraina?
«Penso sia molto sopravvalutato. Non credo che sia cosi importante come vogliono fare passare i mass media turchi e anche il resto del mondo. Io vivo sul Bosforo e sono poche le navi che portano i rifornimenti in Russia, penso che si esageri molto col ruolo della Turchia». 

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