Dal 22 giugno in libreria è tornato Angelantonio, il paziente psichiatrico di Stefano Redaelli di “Beati gli inquieti” (selezione ufficiale Premio Campiello, Premio Napoli e Premio Flaiano 2021), con il prosieguo della sua storia in “Ombra mai più”, edito sempre da Neo edizioni: il rientro del protagonista nella società. Angelantonio è stato ospite della struttura psichiatrica Casa delle Farfalle e adesso deve fare i conti con il mondo esterno, che intanto è mutato, proprio come è cambiato il protagonista dopo la sua permanenza in clinica. Qual è il limite della follia e in che modo un folle viene ritenuto tale? Quanta follia c’è nel mondo, quanta nella realtà e quanta nei pazienti definiti clinicamente folli? Redaelli compi un’indagine approfondita, attraverso l’esperienza del suo protagonista, sui confini della follia. Se il primo libro era incentrato sulla pazzia clinica, qui la follia torna nel mondo reale, proprio come Angelantonio.
In “Beato gli inquieti” esplorava la follia, qui il ritorno alla normalità?
«Il ritorno a casa, che non implica necessariamente il ritorno alla normalità.
Cos’è, quindi, la normalità?
«Non si sa cosa sia, se non un’idea del mondo, condivisa dalla maggioranza della popolazione: una norma, un buon costume. Questo romanzo, come il precedente, mette in discussione la normalità e cerca di indagare su quanto ci sia di assurdo, folle e malato in quello che noi socialmente definiamo “sano”. Inizia tutto con il suo ritorno, ritrova un mondo in cui la precarietà lavorativa è normale, come normale è l’anzianità non assistita e che gli adolescenti, non seguiti ed educati, prendano strade di delinquenza. La società ci vende questa come normalità, ma se ci si interroga sullo scenario, non è una realtà sana e giusta e questa consapevolezza facciamo in modo che ad assumerla sia un folle».
Quindi la cura è l’analisi?
«L’unica cura è prendersi cura di se stessi. In questo caso, l’idea centrale, che non ha più come sfondo la malattia, ma la realtà, è di prendersi cura di sé come atto costitutivo, perché si possa arrivare ad una società sana, in cui ognuno cerchi di prendersi cura dell’altro. Cura, però, vista anche dal punto di vista dei fragili e dei sani, che credono di non avere bisogno di alcun trattamento, ma che ne hanno bisogno anche di più dei fragili, proprio perché si affidano a questa normalità presunta del mondo, senza metterla in discussione».
La vera sfida è riuscire a restare folli in modo sano?
«La vera sfida è riuscire a essere se stessi. Non volersi omologare a un tipo di uomo forte per definizione, ma di imparare a convivere con le proprie umanità e fragilità. Scoprirle, fa diventare più uomo, mentre rimuoverle è molto più rischioso. Da qui l’idea dell’ombra: le scelte che ognuno fa nella vita, tutto ciò che viene sacrificato, che si fa finta di non vedere, che viene lasciato marginale riemerge a un certo punto e se si assume questo lato della maturazione umana, si cresce. L’ombra qui è intesa anche come ombra della malattia che si porta dietro il protagonista: gli altri sanno che lui è stato in clinica. E ancora l’ombra del platano sotto cui è cresciuto e il ritorno a quella protezione».