Stefano Redaelli torna in libreria con “Beati gli inquieti”: «Ecco perché la follia va ascoltata»

Stefano Redaelli torna in libreria con “Beati gli inquieti”: «Ecco perché la follia va ascoltata»
di Alessandra Farro
Lunedì 15 Febbraio 2021, 11:30 - Ultimo agg. 12:45
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Per conoscere qualcosa, bisogna osservarla da vicino ed è quello che ha fatto Stefano Redaelli con il suo ultimo romanzo, selezionato al premio Campiello e allo Strega, “Beati gli inquieti” per Neo Edizioni, in uscita il 18 febbraio, che racconta la follia attraverso Antonio, ricercatore universitario, che si rivolge a una struttura psichiatrica “Casa delle farfalle”, e, accordandosi con la direttrice, si finge un paziente, scoprendo le storie, i disagi, i turbamenti dei pazienti della clinica.

Stefano Redaelli, professore di Letteratura Italiana presso la Facoltà di “Artes Liberales” dell'Università di Varsavia, compie un viaggio all’interno della mente umana, indagandone i lati insoliti e delicati, rivelando che un matto non è che un uomo che dirà sempre la verità.

Com’è nato il libro?
«Tredici anni fa, circa nel 2007, un’amica, insieme ai suoi amici della comunità di Sant’Egidio, mi fece proposta bella e folle: le persone di cui loro si prendevano cura avevano scritto dei diari, mi chiese di trasformarli in romanzo. Poi, aggiunse che c’era un concorso letterario con un premio in denaro, mi chiese di vincerlo e devolvere a loro in beneficenza il ricavato. Ovviamente volevo farlo, ma per poter parlare di quella realtà, dovevo farne esperienza. Così, cercai un istituto psichiatrico vicino, lo trovai, e lo frequentai. Conobbi subito una serie di persone e amici, che mi spalancarono un'altra percezione del disagio mentale. Il libro nasce da un lungo ascolto. Soltanto quattro anni fa si sono create le condizioni per concentrarmi sul romanzo, con la dovuta esperienza. Tutto quello che racconto è reinventato, spero, più che altro, in una verità che si possa cercare dentro la follia, dentro noi stessi».

Cos’è la follia secondo lei?
«Non ho una risposta a questa domanda, perché non ce l’ha nessuno, anche Basaglia rispondeva così.

Dipende da che punto di vista la guardiamo: medico, antropologico, letterario, artistico. La follia potrebbe sicuramente essere definita come un’enigmatica forma di vita, un’esperienza che vada ben oltre la distinzione tra sano e malato, cela un’importante verità della nostra umanità. Non posso dare nessuna definizione, d'altronde un romanzo si scrive proprio per non dare una definizione. Sicuramente la follia ha a che fare con un modo di percepire la realtà ed è una grande metafora di ciò che abbiamo paura e rimosso. La follia è anche una beatitudine in questa inquietudine, è qualcosa che si conserva, è una forma di purezza, che è anche incapacità di stare al mondo. Questo romanzo è anche un po’ un elogio alla fragilità, che guarda alla fragilità, come qualcosa di cui si avrebbe bisogno. Ma, attenzione, questo non significa che si elogia la malattia con il suo dolore, ma che qualcosa ci dice: la nostra società crea queste fratture tra le persone. Poi, chi ne fa definizione della follia, ne fa prigonia, manicomio».

Cosa ne pensa della psichiatria come soluzione?
«Il romanzo non è antipsichiatrico, dico soltanto che la follia va ascoltata. Questo libro è esattamente questo: un ascolto. Mette in dialogo tante voci, tanti discorsi, che sembrano deliri, ma lambiscono e sfiorano delle verità, qualcosa che vada oltre la follia e il disagio mentale. C’è una fede nella letteratura, anzi nel dovere e nella possibilità della letteratura di dar voce a chi non ce l’ha. Lo scrittore ha una responsabilità, la scrittura può avere una funzione curativa nei confronti del disagio mentale, non necessariamente terrifico e spaventoso, ma di grande umanità, che si nasconde dentro il dolore e la paura a chi guarda la follia, come qualcosa che fa male e che possa contagiarci, come qualcosa che abbia a che fare con la violenza, anche la cronaca non ci aiuta a superare questa mentalità».

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