Blu egizio, il celeberrimo rosso. E grigio, con sfumature mai viste. Perché Pompei ai tempi dei romani era coloratissima, oggi si direbbe kitsch, un po’ pacchiana: non proprio l’elegante città bianca e porosa che appare al primo sguardo, duemila anni dopo. Lo dimostra la tavolozza dei pittori antichi individuata al microscopio e con altre tecniche non invasive, con ben 26 pigmenti misurati in uno studio realizzato nel laboratorio di ricerca del parco archeologico con l’università del Sannio (il gruppo di Mineralogia e petrografia, dipartimento di Scienze e tecnologie) e la Federico II (dipartimento di Scienze della terra, dell’ambiente e delle risorse).
L’indagine parte da questa certezza: Pompei oggi si mostra sbiadita; la sua immagine, per quanto suggestiva e unica, non restituisce il colpo d’occhio dato allora dagli affreschi, spesso erotici, con simboli fallici e tanti altri disegni impressi sui muri. Senza parlare delle statue: altro che monocromatiche.
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Chiaro il motivo: le tinte di moda, come il blu egizio (se tendente all’azzurro, ancora più costoso), erano prescelte nelle case dai ricconi anche per accreditarsi in società, dando sfoggio di opulenza. Sulle pareti venivano narrati i miti come proiezione di un cinema ante-litteram: servivano per intrattenere gli ospiti, stimolare la conversazione e, magari, lasciarsi andare dopo cena. Nelle sale da banchetto prevalevano tinte forti, come il rosso cinabro, tipico pompeiano, riconosciuto in tutto il mondo: il colore brunastro era ottenuto con pigmenti a base di ossidi di ferro; mentre l’effetto brillante era dato da terra verde e gialla mischiata con il blu, una tonalità ancora da analizzare. Ma, nella città vesuviana, è stato ritrovato anche un nuovo grigio preparato con il blu egizio, il rosso scuro a base di ferro e un verde chiaro composto da barite e alunite. Quest’ultimo pigmento, per la prima volta, ha dimostrato l’uso del solfato di bario già ai tempi dei romani nel Mediterraneo: a Pompei doveva essere trasportato dai giacimenti dei Campi Flegrei e dell’area vesuviana.
Sul «Journal of Archaeological Science» sono riportate, inoltre, quattro diverse tonalità di rosa: dal famoso purpurissum, ricavato dai gusci di conchiglie, al più brillante, con un bianco piombo, miscelato a ossidi di ferro. E poi, il bianco (contenente calcite, denominato creta calcarea), il viola (dato dalla porpora e dal blu egizio), il nero, l’arancio, il verde sia chiaro sia scuro, e il giallo, il colore più antico, comunque mai purissimo.
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La gamma cromatica di Pompei, dunque, era più ampia e sofisticata di quanto si credesse; grazie all’utilizzo di terre naturali e materiali sintetici, organici e inorganici, dagli infiniti effetti. «I pigmenti puri - in particolare, il blu egizio e il rosso piombo, quasi onnipresenti, e il bianco - venivano sapientemente proporzionati per creare la palette desiderata e dare maggiore brillantezza agli affreschi» dice Celestino Grifa, professore associato di Petrografia e petrologia nell’ateneo sannita, spiegando che lo studio ha portato a comprendere meglio le tecniche usate degli artisti dell’epoca, affinate nel tempo. I campioni analizzati infatti risalgono al II secolo a. C. per arrivare fino al 79 d.C.: prelevati in più punti durante gli scavi, dall’insula dei Casti Amanti al Tempio di Apollo, custoditi in singoli vasi, alcuni esposti nell’Antiquarium, testimoniano pure un notevole fermento nei giorni dell’eruzione dovuto alle tante ristrutturazioni in corso, necessarie per riparare i danni dei precedenti terremoti. Proprio gli schemi decorativi, rimasti incompiuti, hanno permesso di comprendere le modalità di intervento dei pittori: lavoravano dall'alto verso il basso, a strisce, elaborando schizzi preparatori degli elementi architettonici da dipingere. Non solo.
La ricerca scientifica ora corre sui muri: al centro c’è già la megalografia da poco ritrovata nella casa del Tiaso, la cosiddetta nuova Villa dei misteri, con il corteo dionisiaco e le sue splendide figure di dimensioni e altezze quasi naturali. «Lo studio è essenziale anche ai fini del restauro degli affreschi, che sono molto fragili e richiedono una conoscenza approfondita per una corretta conservazione» certifica il direttore del parco, Gabriel Zuchtrieghel, lasciando intuire i nuovi scenari. «Chiarita l’esatta composizione dei pigmenti, si potrebbero replicare le miscele originali sulla tavolozza, dando un “effetto di autenticità” ai dipinti nel restyling, ricostruendo esattamente le parti sbiadite o danneggiate» dice Grifa, che aggiunge: «Si potrebbero, poi, riproporre le opere integrali in digitale, con la spinta e la vivacità dell’epoca». E tutti i colori di Pompei.