Crolla la produzione industriale, lo spread risale a 287

Crolla la produzione industriale, lo spread risale a 287
di Michele Di Branco
Sabato 9 Febbraio 2019, 10:30
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Mai così in basso dal 2012. La produzione industriale fa registrare a dicembre 2018, rispetto al mese precedente, un calo dello 0,8%. Si tratta della quarta contrazione consecutiva, tanto che su base annua l'indice risulta in ribasso del 5,5%. La crisi del settore è generale, ma come già emerso dalle precedenti rilevazioni, ad aggravare la situazione c'è il fattore quattro ruote: la produzione di autoveicoli, su base tendenziale, segna una flessione del 16,6%. «Dopo il punto di massimo di dicembre 2017 annota l'Istat in tutti i trimestri del 2018 la produzione ha registrato, al netto della stagionalità, flessioni congiunturali, con un calo più marcato nell'ultimo trimestre».
 
Tutti i principali settori di attività economica evidenziano variazioni tendenziali negative. Ma le più rilevanti, automotive a parte, sono quelle dell'industria del legno, della carta e stampa (-13,0%), delle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-11,1%) e della fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche, altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (-7,9%). In poche parole la manifattura, spina dorsale dell'economia, affonda per intero. Uno scivolamento così marcato da far dire all'Istat che l'Italia corre il rischio di una «seria difficoltà di tenuta dei livelli di attività economica».

A gennaio, infatti, l'indicatore anticipatore dell'economia, spia di quel che accadrà, «ha registrato una marcata flessione». E questo soprattutto perché si sta deteriorando l'indice di fiducia delle imprese. Proprio le imprese appaiono le più preoccupate. «Il governo ha avvertito il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, deve prendere atto della situazione e, con senso di responsabilità, deve cominciare a costruire provvedimenti che non vadano a inficiare il deficit e quindi ad aumentare il debito pubblico del Paese, ma che possano contribuire a evitare un ulteriore rallentamento». «Penso che l'economia di questo Paese sia sana, non parlo di boom o megaboom, ma stiamo lavorando per aiutare un bel po' di gente» ha commentato il vicepremier, Matteo Salvini. Mentre il leader dei 5 Stelle, Luigi Di Maio, ha spiegato di non credere alla necessità di una manovra correttiva.

Critiche, ovviamente, sono piovute sul governo da parte di sindacati («Il quadro è fosco» ha detto la Cgil) e opposizioni. Un coro di allarme, al quale si sono unite anche Confesercenti e Confcommercio, per il susseguirsi di segnali negativi per il Paese, considerato tra l'altro dall'Istat in fase di «recessione tecnica», dopo due trimestri 2018 con crescita negativa. Il clima che si respira, peraltro, influenza negativamente i mercati. Dopo una fase tutto sommato positiva, lo spread ieri si è impennato sopra quota 290, a 292 punti, per poi chiudere a 287. I mercati sono preoccupati per i segnali negativi dell'Italia sul fronte della crescita economica, dopo le stime sul Pil di Bruxelles, l'allarme lanciato dall'Fmi e, appunto, il deludente dato sulla produzione industriale.

Inoltre il mercato secondario, quello nel quale è calcolato il tasso del decennale, è saturo, dopo che i grandi fondi hanno fatto il pieno di titoli di Stato italiani alle aste del mercato primario. Il rendimento del decennale ha chiuso al 2,968%, dopo essersi involato al 3,026%. Qualche segnale positivo è invece arrivato dal fronte lavoro. Il tasso di disoccupazione monitorato dall'Istat nel 2018 si è fermato al 10,6%, 0,7 punti percentuali in meno rispetto al 2017. Negli ultimi cinque anni, il tasso è diminuito dell'1,5%, tornando ai livelli del 2012, ma restando ancora lontano dal minimo storico del 2007: 6,1%. Il tasso degli occupati, ora al 58,5%, è sul livello più alto dal 2008. Ma il prezzo da pagare è l'aumento della stabilità dei posti di lavoro. «Nel periodo 2013-2018 avverte infatti l'Istat l'aumento dell'occupazione è stato trainato dalla componente dipendente (+7,3%) e in particolare da coloro che hanno una occupazione a termine, che rappresentano oramai il 13,1% dell'occupazione (era il 9,9% nel 2013)».
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