«Qua la lotta è più dura», l'inno al coraggio nato in via Belvedere

«Qua la lotta è più dura», l'inno al coraggio nato in via Belvedere
di Vittorio Del Tufo
Domenica 17 Maggio 2020, 20:00
6 Minuti di Lettura
Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso volere
d'essere niente.
A parte questo, ho in me
tutti i sogni del mondo...

(Fernando Pessoa)

* * *
Un giorno credi di essere giusto
e di essere un grande uomo
in un altro ti svegli e devi
cominciare da zero

(Patrizio Trampetti, Edoardo Bennato, Un giorno credi).
* * *
Napoli, 1972. In una casa di via Belvedere, al Vomero, un giovane musicista scrive su un quaderno l'incipit di una poesia dedicata alla ragazza di cui, un tempo, era innamorato.
Lei si chiamava Roberta e viveva a Novara. Trascorreva tutte le estati a Napoli, a casa di parenti. Poi, ogni volta, ai primi di settembre riprendeva il maledetto treno che la riportava in Piemonte.
«Il suo numero è cambiato/ma il telefono squilla sempre uguale».
Il giovane musicista, che si chiama Patrizio, legge e rilegge la strofa, non è convinto che sia davvero una bella frase. No, pensa, ad Allen Ginsberg non sarebbe piaciuta. Sta per strappare il foglio. Però, in un lampo, ecco che arriva l'intuizione. È un ricordo doloroso, un'immagine che irrompe dal passato. Lui, Patrizio, lo chiama l'incidente. Il mio incidente. Un trauma. E le mani cominciano a danzare nervosamente sul quaderno. La poesia vira in tutt'altra direzione. Il ricordo dell'amore infelice diventa una sola cosa con la fatica di vivere.
«Quando ti alzi e ti senti distrutto
fatti forza e va incontro al tuo giorno».
* * *
Milano, 1973. In un oratorio di piazzale Corvetto, usato dalla Ricordi come studio di registrazione, Edoardo Bennato prova le tracce che entreranno nel suo primo lp, «Non farti cadere le braccia». Al suo fianco ci sono altri musicisti: tra loro alcuni componenti della Nuova Compagnia di Canto Popolare, nata anni prima dal genio di Roberto De Simone. C'è Eugenio, fratello di Edoardo e suo primo collaboratore artistico. C'è lo stesso De Simone, che cura gli arrangiamenti orchestrali del disco. C'è il produttore, Sandro Colombini, già direttore artistico dalla Numero Uno di Mogol e Battisti. E c'è Patrizio Trampetti, il giovane musicista del Vomero, figura chiave della NCCP. Sarà lui a mettere a disposizione di Edoardo uno dei più bei testi del repertorio della canzone italiana scritti dal dopoguerra a oggi. Ovvero la poesia nata pochi mesi prima, in un appartamento di via Belvedere, e inizialmente dedicata al ricordo di un amore sfortunato: in realtà un inno al riscatto e alla forza che tutti, nei momenti difficili, nelle ore buie - soprattutto quando la depressione è in agguato - possiamo trovare dentro di noi per risollevarci e andare incontro alla vita.

«Sei testardo, questo è sicuro
Quindi ti puoi salvare ancora
Metti tutta la forza che hai
Nei tuoi fragili nervi»

Da ragazzino Patrizio - che a quindici anni già scriveva canzoni e comprava i dischi a Forcella, dove gli americani vendevano gli lp che arrivavano dagli States e quindi costavano di meno - aveva studiato chitarra classica dal maestro Eduardo Caliendo, che aveva lo studio in via Aniello Falcone. Proprio in casa Caliendo aveva conosciuto Eugenio Bennato, che seguiva a sua volta le lezioni di chitarra, e suo fratello Edoardo, che aveva già terminato gli studi con il maestro. Fu proprio Eugenio, nel 1969, a dirgli «Patri' vieni con me, c'è il maestro De Simone che sta cercando un nuovo elemento». Cominciò allora una bellissima storia che attraversò tutti gli anni 70, una lunga avventura alla ricerca delle origini del canto e della tradizione popolare campana. La musica di Edoardo, invece, va in un'altra direzione. Ma quando lui chiama, chiedendo agli amici di stare al suo fianco, loro non si tirano indietro.
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Guardare al futuro, sempre. Senza mai rimpiangere il passato. Senza mai lasciarsi travolgere dai giorni di ieri, dagli errori commessi e dagli incidenti di percorso. Ascoltando «Un giorno credi» si ha l'impressione che Bennato stia parlando di se stesso, dei suoi sogni infranti e delle sue paure. Soprattutto della sua straordinaria tenacia, che lo spinse a non mollare, a guardare avanti, anche quando tutto girava storto, quando lo stesso ambiente delle case discografiche gli voltava le spalle, mostrando di non credere in lui. Gli ci vollero nove anni di gavetta, infatti, per ottenere un contratto da una casa discografica. A quei tempi - nel 1973 - Edoardo Bennato riteneva che «Non farti cadere le braccia» fosse l'ultima speranza per fare della musica il suo mestiere. La stessa immagine scelta per la copertina del disco è simbolica: l'ultimo fiammifero di una bustina di Minerva. E «L'ultimo fiammifero» doveva essere, in origine, il nome dell'album. Come dire: o la va o la spacca. L'accoglienza di «Non farti cadere le braccia» fu fredda. Delle 3000 copie distribuite all'inizio ne tornarono indietro 2500. Un responsabile della Ricordi, passato alla storia per la lungimiranza, gli disse che la sua voce era sgraziata, che forse avrebbe fatto meglio a tornare a fare l'architetto. Invece, per il ragazzo cresciuto nel cortile di via Diomede Carafa, a Bagnoli, quel disco sarà l'inizio di una lungo e straordinario viaggio. Anche grazie allo strepitoso testo scritto dall'amico di via Belvedere, Patrizio Trampetti.
* * *
Quando aveva dieci anni, Patrizio vide il padre morire davanti ai suoi occhi. Di notte, un ictus fulminante. Quell'immagine lo avrebbe perseguitato a lungo. L'incidente. Il giovane e sensibile musicista avrebbe faticato molto per venirne fuori. E per superare il suo carattere schivo.

Il testo di «Un giorno credi» nacque all'ombra di queste inquietudini. Delusioni e amarezze non devono diventare un alibi (falsi incidenti) per smettere di guardare avanti. Nemmeno se ti alzi e ti senti distrutto. Nemmeno se ti senti già vecchio e cadente. Nemmeno se ti sembra tutto assurdo, anzi ti sembra di essere «l'assurdo in persona».
Diceva Allen Ginsberg che il peso del mondo «è amore». Sotto il fardello di solitudine, sotto il fardello dell'insoddisfazione, il peso, il peso che portiamo è amore. Anche Patrizio pensava al «peso del mondo» come un fardello amoroso. «All'inizio della mia carriera - ricorda oggi - dovevo trovare dentro di me le motivazioni per andare avanti, per non mollare. Ero timido, cupo, introverso. Avevo molti momenti crepuscolari, di depressione vera. Però anche un enorme desiderio di realizzazione, di riscatto, di compiutezza. Erano questi gli stati d'animo che ho riversato nel testo di Un giorno credi. Un testo che calzava a pennello anche con il periodo che stava vivendo Edoardo. Lui era molto demotivato perché aveva avuto esperienze negative con le case discografiche. Quando mi girò la melodia pensai immediatamente di adattarvi la poesia che avevo scritto alcuni mesi prima. Avevo conservato gli appunti, da qualche parte. Quei versi parlavano di me, però in fondo parlavano anche di Edo».

* * *
«Mentre tu sei l'assurdo in persona
e ti vedi già vecchio e cadente
raccontare a tutta la gente
del tuo falso incidente»
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«Nei primi tempi della NCCP, quando ci vedevamo a casa di De Simone, Roberto spesso tra una prova e l'altra ci leggeva le poesie di questi autori americani della beat generation, che amava. Ricordo quando ci fece sentire le poesie di Jukebox all'idrogeno, di Allen Ginsberg. Ne restai folgorato. Io ero abituato alle poesie di Leopardi, di Pascoli, di Carducci. Cambiava completamente la metrica. Così cambiò anche il mio modo di scrivere. Cominciai a utilizzare, per esempio, gli aggettivi prima del sostantivo. L'espressione I tuoi fragili nervi è nata così. Ma anche l'assurdo in persona. Avrei potuto scrivere Una persona assurda, ma volli ribaltare il concetto».

L'arrangiamento orchestrale, da brividi oggi come allora, fu curato da Roberto De Simone, ideologo e anima della Nuova Compagnia di Canto Popolare di cui Patrizio Trampetti era uno dei volti e delle voci, con Fausta Vetere, Eugenio Bennato, Carlo d'Angió, Peppe Barra e Giovanni Mauriello. La sezione orchestrale del brano venne sovraincisa, a Milano, da alcuni solisti dell'Orchestra della Scala, che si affidarono alla direzione del maestro De Simone. «Chiesi a Roberto - ricorda Trampetti - di ascoltare Penny Lane dei Beatles. E lui inserì quel trombino barocco, difficilissimo da suonare». «Si è detto e scritto di tutto sul testo di Un giorno credi. Anche che la canzone fosse dedicata al fardello della droga. E invece la droga non c'entra. C'entra il malessere esistenziale, certo. La fatica di vivere. E la fede che dobbiamo avere in noi stessi per guardare sempre avanti. Nonostante tutto. Perché il peso che portiamo è amore».
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