Napoli, condannato per mafia: Marziale va in carcere dopo 20 anni. «Ma ora lavora onestamente»

Napoli, condannato per mafia: Marziale va in carcere dopo 20 anni. «Ma ora lavora onestamente»
di Leandro Del Gaudio, Valentino Di Giacomo
Martedì 29 Dicembre 2020, 11:29 - Ultimo agg. 17:36
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«Ha commesso degli errori quando aveva 26 anni, poi però ci siamo sposati e lui è cambiato totalmente, adesso ha tre figli e da allora lavora onestamente. Ora, dopo 21 anni da quando ha commesso i suoi reati, lo hanno portato in carcere». Chiede aiuto attraverso un videomessaggio la moglie di Giuseppe Marziale, il 47enne che nei giorni scorsi è stato portato nel carcere di Secondigliano per alcuni reati connessi al traffico di droga risalenti al 1999, per una condanna definitiva giunta solo lo scorso 17 novembre. La donna rivolge un appello al presidente Mattarella per un atto di clemenza e c'è chi si divide sull'opportunità di una pena detentiva dopo tanto tempo rispetto al reato consumato. Fatto sta che da Napoli giunge un altro caso emblematico di giustizia-lumaca, ma pure di una giustizia che perde di vista il suo obiettivo ultimo: quello della riabilitazione e del recupero alla società di un condannato.


Una giustizia che ha comunque consentito a chi è stato ritenuto responsabile in via definitiva di associazione camorristica finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di poter organizzare la propria vita, lontano dal circuito riabilitativo del sistema penitenziario italiano.

Ma andiamo con ordine, video messaggi a parte, per mettere a fuoco il caso di Giuseppe Marziale, negli anni Novanta ritenuto responsabile di aver fatto parte di un clan camorristico dei Quartieri spagnoli e di aver trafficato droga in spagna. È stato condannato a undici anni e undici mesi di reclusione appena pochi mesi fa, tanto da finire in cella la scorsa settimana. Dovrà scontare una lunga pena detentiva a distanza di 21 anni rispetto al reato commesso, rispetto ai giorni in cui si muoveva tra i vicoli di Montecalvario come narcos della camorra. Giustizia lenta ma inesorabile? O giustizia lontana dal principio costituzionale che impone la riabilitazione a stretto giro rispetto al reato consumato?


IL RETROSCENA
Restiamo agli atti processuali. Oltre tredici anni è durato il processo di primo grado; poi si è arrivati in appello. Qui l'istruttoria dura un paio di anni, tanto che il verdetto di condanna viene pronunciato il 18 novembre del 2015 (seconda appello, presidente Carlo Maddalena, poi andato in pensione). Fine della storia? Niente affatto. Da allora, il caso finisce nel limbo. Tanto che le motivazioni vengono depositate con ben quattro anni di ritardo, il 30 gennaio del 2019. Un buco che rappresenta un ulteriore danno all'ingranaggio della giustizia. Ancora qualche mese per il ricorso in Cassazione, si arriva al verdetto conclusivo e alla messa in esecuzione del verdetto, grazie alla macchina della procura generale (tra le più spedite ed efficienti d'Italia).
Resta un ritardo tutto da spiegare, tutto da approfondire, anche alla luce di una semplice ricognizione delle carte del processo: l'istruttoria a carico di Giuseppe Marziale non è stata un maxiprocesso, nulla di paragonabile ai fascicoli monstre degli anni Ottanta in materia di Nco, né di riconducibile ai casi più noti della cronaca giudiziaria italiana. Non ci sono stati difetti di competenza, depistaggi, manine e quant'altro possa rallentare l'azione penale. No, era un processo per pochi imputati al massimo, tanto che del suo gruppetto di affiliati Marziale è l'unico rimasto in vita. Fatto sta che ventuno anni dopo, per lui si aprono le porte del carcere.
Spiega l'avvocato Sergio Pisani, che assiste l'imputato: «L'unica strada adesso è che possa prendere a cuore il caso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con un atto di grazia del Quirinale nei suoi confronti». Eppure Marziale, fin dall'inizio, non era stato considerato dagli stessi giudici un soggetto pericoloso per la società. Dopo un primo arresto - in cui confessò ai pm i suoi reati - venne scarcerato dopo soli 14 giorni dal Tribunale del Riesame per mancanza di esigenze cautelari. Ora invece la condanna definitiva non ammette mediazioni, per una pena così lunga (undici anni e undici mesi) non c'è neppure la possibilità di scontarla con misure alternative senza prima trascorrere diversi anni in prigione. «La carcerazione di Giuseppe - fa notare Sergio Pisani - rappresenta il fallimento totale dell'attuale sistema giustizia. Che senso ha, dopo 21 anni da un reato, far scontare quasi 12 anni di reclusione ad un soggetto che in un ventennio si è totalmente riabilitato lavorando onestamente e mettendo su famiglia».
Una riflessione sulla quale fa leva l'intervento della moglie di Marziale: «Non è giusto mettere ora in galera mio marito dopo che era già cambiato e che in questi anni non ha mai fatto mancare nulla a me e ai suoi figli. Nessuna riabilitazione ci può essere 21 anni dopo aver commesso il fatto».

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