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Detenuti a Napoli, la lettera ai figli: ora siamo lontani da voi ma torneremo migliori

La rivelazione: agli amici occorre raccontare che un genitore vive fuori città

Detenuti a Napoli
Detenuti a Napoli
Articolo riservato agli abbonati
Lunedì 20 Marzo 2023, 07:57 - Ultimo agg. : 07:58
7 Minuti di Lettura

Il 19 marzo è la Festa del Papà. Lo sappiamo da quando siamo piccoli e a scuola ci facevano fare lavoretti e imparare a memoria le poesie. La Festa del Papà è una ricorrenza dolce, felice e bella per alcuni bambini ma per altri no, non lo è. C'è chi, sin da piccolo, il padre non lo ha mai conosciuto o chi lo ha perso e magari proprio durante questo periodo. E poi c'è chi ha dovuto mettere sul volto del proprio padre la maschera di una bugia che pesa, pesa tanto e a tutti: «Papà è partito, lavora all'estero».

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Questa frase è, spesso, proprio quella maschera di bugie che sono costretti a mettere sul volto di noi detenuti i nostri figli. Questo pensiero fa male. Mia figlia mi ha detto: «"Papà ma non lo sai che i fidanzati non lasciano mai le loro fidanzate per viaggiare? Va beh dai questa volta ti perdono!" Sono il suo principe, e il solo pensiero mi riempie di lacrime, mi riempie d'orgoglio, ma poi penso che un giorno, tra anni, non saprò mai raccontarle di quel viaggio in Francia che non ho mai fatto. La mia Parigi è Poggioreale. Tuttavia, quest'anno c'è qualcosa che ci ha permesso di vedere e vivere le cose in modo un po' diverso, in un modo meno triste e forse in un modo carico di speranza. Il 21 marzo il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, andrà a Casal di Principe per omaggiare don Peppe Diana il sacerdote ucciso dalla camorra 29 anni fa proprio il 19 marzo, proprio il giorno della Festa del Papà, il giorno del suo onomastico. Non è necessario che parta da qui, da queste mura, o meglio da questo luogo fatto di sbarre, un discorso elogiativo di quel grande uomo e non perché non ne saremmo capaci o degni. Anzi pensando alla sua vita, forse don Peppe Diana vorrebbe proprio che lo facessimo noi un discorso in sua memoria.

Tuttavia, sappiamo bene che c'è già chi lo farà, tutto qui. Quello che però da qui vorremmo dirvi, cari lettori, è solo una cosa. Don Peppe Diana era un uomo generoso, onesto, pronto a dare la vita per il suo popolo e quella vita poi al suo popolo l'ha consacrata e regalata. Mentre se ne parlava, durante il giorno delle nostre "parole in libertà", è stato inevitabile pensare alle parole dette da alcuni di noi detenuti mentre parlavamo della Festa del Papà: «Io non sono padre, ma quando mia nipote mi svegliava la notte per abbracciarmi, mi faceva scucecà (impazzire) tutti i pensieri», oppure «Mi devi credere mio figlio per me è tutto, lui cade e io mi faccio i lividi». 

Anche don Peppe Diana non era padre, ma per i suoi figli, ogni notte, siamo sicuri, si faceva scucecà tutti i pensieri. Questo ci ha fatto pensare che anche se ora per i nostri figli non possiamo essere come i nostri padri che ci aspettavano a casa dopo una uscita e, anche se ormai grandi, continuavano a dirci «Ma a quest'ora ti ritiri? Che hai fatto?», comunque forse un giorno potremmo chiedere perdono ai nostri figli ed essere perdonati. La vita e il sacrificio di don Peppe Diana fanno capire che la possibilità di fare scelte giuste e coraggiose per il solo fatto di amare i propri figli e il prossimo, sono possibili. Si può tornare indietro? Si può ritirare quella mano che ha rubato? Si può ritirare quel pensiero che ci ha fatto diventare detenuti? No, non si può.

Ma si può fare un'altra cosa. Si può scegliere di essere persone migliori, persone che sbagliano e lo riconoscono. Persone che portano in faccia i pesi dei propri errori, partire da qui per diventare persone che sanno chiedere perdono, che sanno segnare un punto da cui ricominciare per amare meglio i propri figli, persone che vogliono recuperare. Se per noi la vita di don Peppe Diana è un modello di vita in cui le scelte sono state sempre e solo dettate dall'amore, vuol dire che c'è la speranza che imitando le sue scelte giuste potremmo un giorno tornare a essere un modello di vita per i nostri figli e quel giorno allora, e da allora ogni giorno, per noi sarà davvero una grande Festa del Papà. La più bella.

"Quant nu pat vo parlà nun tien tiemp ro snti,
a' miett aret a tutt cos, tant nu pat po' aspttà
e sul quand se fa viecch' e te piglian e rimors
o vuliss accuntuntà. Quand nu pat è malat
sannasconn a malatia, pecchè sul iss vo suffrì
e t' regal nu surris e quand o circ qualche cos
te vo semp accuntentà, e t penz semp.
Te cummogliè quand ruom comm a quand ir
Piccirill te ven accarezzà senza te scetà,
e te guard e s'accorg ca tu ancora l'assumigl'
o tiemp vo fermà pe nun te lassà."

Reparto Firenze

(dalla finestra del
Carcere di Poggioreale)

Dove lavoro? Su una nave il suo nome è "Speranza" e presto mi porterà da te


19 marzo, noi papà tra limiti e speranze
Oggi c'è una data per ogni festa, o meglio una giornata dedicata a qualunque cosa. Forse, nel tentativo di ricordare mettendo la data simbolo si corre il rischio di volare troppo alti, e perdere il contatto con le cose più vere e concrete della vita. Ieri era il 19 marzo, San Giuseppe, data simbolo per la cristianità e per i papà, anche giustamente, perché San Giuseppe è il padre per eccellenza. Quindi, ieri, tutti i bambini hanno festeggiato i loro papà. I papà però dovrebbero essere festeggiati ogni giorno, soprattutto dai figli un po' cresciuti che spesso relegano ad altri il compito di accudire i loro genitori ad istituti di accoglienza per anziani, cosa che in genere si fa con i figli. I papà sono una figura importantissima nella vita dei figli: cercano di guidarli e aiutarli, magari, a non commettere gli errori che loro stessi hanno commesso, cercano sempre di capirli in ogni decisione che in solitudine prendono anche se non la condividono. I figli dovrebbero capire che fare il genitore è un mestiere troppo difficile e perdonare quando un papà commette degli errori. Ricordarsi, poi, di onorarli tutto i giorni e non solo il 19 marzo. Questa volta, però, ti scrivo io, figlio, e cambio le tradizioni delle ricorrenze. Se per la festa del papà è il papà a scrivere ad un figlio, e se a farlo è un papà detenuto, la cosa è inusuale. Ho un figlio di due anni e mezzo, si chiama Nathan, e crede che io sia lontano da lui perché lavoro su una nave.

L'ultima volta che è venuto a trovarmi nel centro penitenziario mi ha chiesto come si chiamava questa nave; io non ho risposto subito, ma ho deciso di farlo scrivendogli una lettera, utilizzando proprio la festa del papà per cogliere l'occasione di esprimere un sentimento che parte proprio da quella domanda, "il nome della nave?". Cercando un po' dentro me stesso ho trovato la risposta. Quella nave si chiama Speranza. È una nave grande, piena zeppa di naufraghi, un po' rovinata. Grigia, con un po' di ammaccature, ma si tiene a galla. È una nave sicura, ci sono porte e finestre di ferro e uomini in divisa che fanno in modo che nulla di male accada. Sono convinto che la nave Speranza un giorno approderà in un posto non troppo lontano, dove scenderò, e voltandomi vedrò Speranza allontanarsi, augurandomi che lasci qualcuno scendere, in un altro porto, e che io mi senta più vicino a te. Un padre detenuto scrive a un figlio nella festa del papà per scusarsi, per far sapere ad un bimbo di poco più di due anni che non esiste giustificazione per non essere presente, per non poterlo accompagnare a scuola la mattina, o per un caldo abbraccio nel momento del bisogno. Perché in questa nave le emozioni sono chiuse dentro sé stessi, e molte volte sono difficili da mostrare nel poco tempo a disposizione quando ci si può incontrare, e quello che rimane, prima di dividersi nuovamente, è il ricordo di una vocina dolce, o di una piccola manina che ti lancia un bacio mentre quella porta si chiude.
Allora figlio mio, scrivo io a te per ringraziarti, perché invece tu ci sei, sempre, e anche se nel tuo cuore ora c'è solo una debole l'eco, tu sei l'unico in grado di riempire ogni attimo del mio tempo.

Raffaele, Daniele, Giuliana
(dalla finestra del carcere di Secondigliano)
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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