«Fuocarazzo», il docufilm di Sergio Aliberti e Maria Laura Desiderati sul cippo di Sant’Antonio

In onore alla festa di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, debutta il nuovo docufilm che documenta una tradizione secolare che è diventata una vera e propria festa portata avanti dagli scugnizzi dei quartieri di Napoli

Fuocarazzo
Fuocarazzo
Lunedì 9 Gennaio 2023, 18:00
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Ogni paese ha intessuto nel proprio patrimonio culturale, nella propria storia e nelle proprie origini; tradizioni e usanze, che si tramandano nei secoli, e che come miti e riti viaggiano nel tempo fino ad arrivare e travolgere le nuove generazioni. Mutano, si evolvono, cambiano i linguaggi ma i codici si infilano come Dna nel tessuto reticolare delle città.

A Napoli più di ogni altro luogo, le tradizioni, sono vive e tenute insieme protette dalla cultura partenopea che in molti identificano come napoletanità.

Al termine delle festività natalizie, in questi giorni, nei quartieri di Napoli e nelle stradine strette dei vicoletti, si sono spente le luci di Natale, tolti gli addobbi colorati, restituendo il grigiore della fatiscenza dei palazzi; ma i bambini dei quartieri si stanno preparando ad un’altra festa accendendo così altre luci, quelle dei cippi, dedicati in onore a Sant’Antonio Abate, che si festeggerà il 17 gennaio.

In occasione di questa tradizione secolare, gli autori, Sergio Aliberti e Maria Laura Desiderati, hanno girato un docufilm «Fuocarazzo» in cui hanno documentato e seguito passo dopo passo, i ragazzi dei Quartieri Spagnoli, nella preparazione del cippo, con il quale il 17 sfideranno i quartieri vicini a chi fa la fiamma più alta.

Con grande umanità e naturalezza, Aliberti racconta una tradizione che purtroppo a causa dei pregiudizi sta scomparendo, e che soltanto i bambini stanno proteggendo con orgoglio, rendendola più viva che mai e tramandandola così di generazione in generazione.

Gli autori sono partiti dai ragazzini dei Quartieri Spagnoli, nel racconto si evince bene l’amalgamarsi di gioco e tradizione, difatti ci è stato raccontato che i ragazzi si sporcano addirittura il viso di nutella per simboleggiare il sangue del maiale in onore al Santo che fu protetto, secondo la leggenda, dal maiale quando scese negli inferi. Prima ancora i loro nonni lo facevano con il sanguinaccio e dunque capiamo bene il passaggio generazionale.

 

Fuocarazzo però non è solo un modo per documentare la festa ma anche l’occasione per raccontare la realtà in cui vivono questi bambini con un background molto problematico provenienti da ambienti e infanzie difficili, emarginati perché visti come piccoli delinquenti, e uniti tutti dalla voglia di rivalsa, di prendersi ciò che la vita tende a negargli; infanzia, gioco, spensieratezza. Non delinquono, per loro è un gioco, è una tradizione a cui non vogliono rinunciare e vedendosi le autorità contro tendono a sviluppare quell’aspirale di negatività in cui non capiscono più la differenza tra il bene e il male.

Sono gli scugnizzi di oggi che vogliono far sentire la loro voce, facendosi spazio nel mondo dei grandi e il «fuocarazzo» rappresenta per loro un rito di passaggio.

Ad oggi la tradizione dei cippi non è stata ancora regolamentata e i ragazzini continuano ogni anno ad organizzarla il 17 gennaio; proprio per questo l’intento di Sergio Aliberti è di far riscoprire il passato, smuovere le coscienze, accendere una speranza nella società e portare delle risposte concrete sul perché non vengono dati dei luoghi in cui poter permettere a questa tradizione di poter essere svolta con delle regole, dare a questi ragazzi degli spazi in cui poter fare i cippi in sicurezza ma soprattutto nel non avere diffidenza verso questi bambini che sembrano adulti, ma sono piccoli, e andrebbero capiti, tutelati e difesi non attaccati con elmetti e manganelli.

Un docufilm incredibile, su una tradizione antica che oggi stanno portando avanti i bambini…
Sì, la cosa assurda è che a Napoli abbiamo un grandissimo patrimonio che in qualsiasi altra parte del mondo sarebbe stato valorizzato, invece, qui si è deciso di cancellarla quasi come se fosse una storia e una tradizione maledetta.

Oggi sono i bambini a portarla avanti ed è un peccato perché spesso festeggiamo tradizioni che non sono nostre e purtroppo se ne cancellano altre.

Che cos’è il Cippo di Sant’Antonio?
Il Cippo di Sant’Antonio è una tradizione antichissima addirittura precristiana, prima della nascita di Cristo, già c’erano ai tempi dei romani delle feste nel periodo vicino al capodanno solare, nel quale si accendevano fuochi in onore delle divinità pagane. Poi nel tempo il tutto è stato assorbito dal cristianesimo dedicando la festa a un Santo, che in questo caso quello cristiano è Sant’Antonio sul quale è stata poi costruita la leggenda legata al cippo. Difatti si dice che Sant’Antonio, protettore sia del fuoco che degli animali domestici, voleva portare il fuoco agli esseri umani, così scese negli inferi, dove c’erano i diavoli, rubò una scintilla dal fuoco dell’inferno e provò a portarla di nascosto sulla terra, solo che fu scoperto dai diavoli e venne bastonato (ci sono bellissimi dipinti in cui si vede il Santo bastonato dai diavoli), grazie al suo animale domestico, che era un maialino, spaventò i diavoli e lui riuscì a scappare dando il fuoco agli esseri umani. Per questo Sant’Antonio è protettore sia del fuoco che degli animali.

Perché parla di un patrimonio che oggi ci è stato sottratto?
Perché l’ignoranza sta cancellando questa tradizione, l’unica cosa che si vede agli occhi di tutti, sono dei ragazzi che rubano gli alberi e fanno dei falò e subito è associato il tutto alla malavita, a qualcosa di illegale, senza capire che invece c’è tanto dietro; perché è una tradizione assorbita di generazione in generazione, perché lo facevano i più grandi, i loro genitori, e prima ancora i nonni e perché si è sempre fatto questo nei quartieri di Napoli. L’esempio lampante è la classica scena del cippo della serie “L’amica geniale” tratta dal romanzo di Elena Ferrante. Ci si riuniva attorno al fuoco si bruciavano tutti gli avanzi delle feste, i mobili vecchi, qualsiasi cosa e Sant’Antonio te lo restituiva nuovo, come una speranza, infatti si dice: “Sant’Antonio pigliate ‘o viecchio e dacce ‘o nuovo”. Ma lì dov’era la delinquenza? Perché non era vietato?

Quindi pensa che sia sbagliato chiamarle baby gang?
Assolutamente sì! Io li ho conosciuti, e filmandoli in questa loro impresa, ti assicuro che alla fine sono veramente ragazzi che non hanno niente a che fare con la malavita, semplicemente è un problema di comunicazione e anche di divieti. Se il comune, invece, consentisse questa tradizione dando loro della legna e spazi, in sicurezza, per permettergli di fare fuochi e realizzare cippi con regole, non avrebbero più tutta questa connotazione violenta che hanno. Sono ragazzi dei quartieri che vengono sicuramente da un background molto problematico e con questi divieti sentono che viene sottratto loro un qualcosa che gli appartiene ed è il primo passo in cui svilupperanno astio verso la polizia e le autorità, perché loro lo faranno lo stesso ma senza regole e da qui possono partire tante cose come ad esempio una crescita sbandata.

Come è riuscito a conquistarsi la loro fiducia?
Non è difficile perché i ragazzini a quell’età vogliono essere ripresi, per fama, per sfidare o dimostrare ai loro coetanei, di non essere più bambini ma di essere grandi perché è quasi un rito di passaggio a un’età adulta, e lì, l’età adulta, si acquista molto presto. Non ho mai avuto la percezione che qualcuno potesse avere un interesse a derubarmi perché non è questo il loro obiettivo, il loro obiettivo è fare il fuoco più alto, perché è una tradizione che vogliono tenere viva. Ora sta anche mutando il tutto perché la sfida parte da prima, dalla raccolta della legna e parte soprattutto dai social, dunque è una tradizione che si sta evolvendo.

Si preparano al cippo già nel periodo di Natale?
Oramai sì, una volta no, una volta avveniva con l’Epifania quando si toglievano tutte le luminarie, loro andavano dai negozianti, di casa in casa a prendersi gli alberi secchi delle persone. Anzi addirittura erano le persone a darglieli, facevano un’operazione quasi sociale come i netturbini. Ora invece si sono incattiviti, perché gli è stato vietato e se li vanno a prendere da prima e sentiamo così parlare di alberi rubati nella città.

Lei ha documentato anche i codici, i linguaggi, oltre al modo in cui si sfidano tra di loro. Quindi è un aspetto per mostrare chi sono gli “scugnizzi” di oggi e quello che è l’aspetto antropologico di Napoli e i rapporti che intercorrono con le tradizioni della città?
Assolutamente sì, gli scugnizzi di oggi sono questi. Ci tengo proprio che venga utilizzato questo termine scugnizzo, e non baby gang, perché scugnizzo è qualcosa di antico, tradizionale, crescono sicuramente ragazzi svegli. Sono molto piccoli ma adulti dentro. Invecchiano presto con pregi e difetti, anche perché non hanno un’infanzia facile e quindi cercano di eliminarla; ma chiamarle baby gang è un qualcosa da tenere lontano da queste tradizioni, da questo fenomeno sociale che purtroppo è diventato maledetto.

Quale messaggio spera che arrivi?
Io spero che arrivi prima di tutto una voglia di riscoprire il passato, il perché vengono fatti questi fuochi, il perché viene fatto il cippo, e non avere diffidenza verso questi ragazzi, di non emarginarli con i termini associandoli alla delinquenza perché più si ragiona in questo modo e più questi ragazzi non avranno un futuro. Bisogna quasi ringraziarli perché tengono viva una tradizione così antica che addirittura nei salotti nobiliari di Napoli si sono dimenticati.

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