Ucciso alla Sanità. «Genny non era un bullo, poteva salvarsi»

Ucciso alla Sanità. «Genny non era un bullo, poteva salvarsi»
di Fabrizio Coscia
Martedì 8 Settembre 2015, 08:46 - Ultimo agg. 10:35
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Genny poteva essere un mio alunno. Tra pochi giorni lo avrei trovato seduto dietro uno dei banchi della sua classe, all’alberghiero dell’«Isabella d’Este-Caracciolo», la scuola che lui frequentava, tra la collina di Materdei e il rione Sanità. Forse mi avrebbe guardato dritto negli occhi, per capire con chi avrebbe avuto a che fare, oppure lo avrei trovato con la testa china sul suo cellulare.



O forse in piedi, chissà, già pronto a chiedermi di uscire. So che amava girare per le classi, come molti alunni «difficili», che a volte i docenti accontentano volentieri, pur di levarseli di torno e fare lezione per qualche minuto. Genny, in particolare, aveva un modo tutto suo per convincerti. Non s’imponeva, non ti sfidava, ma lo faceva scherzando, ti supplicava con il suo «e ja’…ja’…faciteme ascì», ti prendeva sotto braccio, finché non cedevi alle sue richieste insistenti, e riusciva a strapparti anche un sorriso. Perché era un tipo simpatico, Genny. E quando entrava nelle altre classi chiedeva di essere accolto per qualche minuto con la stessa insistenza che usava per uscire dalla propria aula. Non era un bullo. Le colleghe che lo hanno avuto come alunno parlano tutte di un ragazzo molto vivace, ma sempre rispettoso degli insegnanti, leale, ben voluto da tutti.



Si era messo nei guai con la giustizia, qualche anno fa, ed era seguito dai servizi sociali, ma aveva deciso di mettere la testa a posto e stava cercando in tutti i modi di cambiare. La strada era tutta in salita, ma aveva capito che la scuola poteva dargli l’opportunità di salvarsi: voleva prendersi la qualifica del terzo anno e partirsene, per fare il pizzaiolo fuori dal suo quartiere, lontano da una città che non permette redenzione se nasci nel posto sbagliato. Aveva, cioè, dei sogni normali, sogni di una vita onesta. E anche se in classe faceva fatica a starci, si sforzava di migliorare, di cancellare quell’etichetta di alunno «difficile» che lui stesso si era appiccicata addosso negli anni. Che poi cosa significa alunno «difficile», se non il fatto che è la scuola a diventare più difficile con certi alunni, e dunque più bisognosa di aiuto?



È su questo che cerco di interrogarmi, quando mi trovo in una classe di trenta e più ragazzi, ciascuno con la sua storia (spesso violenta), le sue privazioni, i suoi abbandoni, le sue fragilità. Perché, lo scriveva don Milani, «se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati». L’altra notte la mia scuola ha perso Genny. Lo ha perso per sempre. Io non ho fatto in tempo a conoscerlo. Ma ragazzi e ragazze come lui, nei miei anni di lavoro come insegnante, in periferia e nei quartieri a rischio, ne ho conosciuti tanti. Tutti o quasi col destino segnato nei loro sguardi dall’infanzia rubata. Con alcuni sono riuscito a trovare un varco, un accomodamento, una tregua, nei migliori dei casi un’intesa. Ma inevitabilmente, per la maggior parte, finita la scuola, si sono ritrovati smarriti e facile preda del loro contesto. Non so come sarebbe stato il mio rapporto con Genny, se l’avessi conosciuto. So che ai professori chiedeva spesso di essere aiutato.



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