Quanto pesa l'anomalia campana sul nuovo corso del Pd

di Pietro Perone
Martedì 5 Marzo 2019, 08:00
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Volti che da tempo non si vedevano nei gazebo del Pd per partecipare alla primarie. Finanche Guccini ha deciso di votare, icona della musica d'autore che in questi anni ha lasciato il palco dei concerti riponendo nell'armadio la canzone militante di cui è stato il principale rappresentante. Una novità inattesa, una inedita partecipazione fatta di gente in carne e ossa e non di click davanti a una piattaforma web di cui si ignorano i meccanismi.

È accaduto un po' dovunque in Italia e le code ai seggi si sono viste anche in Campania, cosa che non era affatto scontata, anche perché se a Salerno c'è stata la chiamata alle armi di Vincenzo De Luca, lo «sfrantummato» partito napoletano proprio non immaginava una tale risposta da parte dei cittadini. Il segnale di quanto il voto vada oltre il Pd e riguarda quel che resta della sinistra nel suo complesso.

Si riparte dalla partecipazione, e questo è un buon inizio per una forza che si autodefinisce popolare e di massa. Ma la campagna per le primarie è ancora dietro la porta per poter essere archiviata senza ritrovare in essa l'anomalia campana, quel male che da decenni soffoca tutto ciò che di nuovo si muove dal Garigliano in giù. In Italia ha vinto Nicola Zingaretti, come in Campania pur se di misura. Intorno a lui si sono rivisti anche dirigenti del Pci-Pds-Ds rimasti fuori dal Pd o fortemente critici come Antonio Bassolino; intorno allo sfidante, Maurizio Martina, si sono ritrovati invece i fedelissimi del governatore.

Questi sono stati in grado di ribaltare il risultato del «nazionale» e consegnare la vittoria per la segreteria regionale all'ex sindaco di Salerno, Leo Annunziata, primo cittadino di Poggiomarino, centro di confine tra il Napoletano e il Salernitano, una sorta di equilibrismo geografico nel tentativo di non imprimere al successo una connotazione strettamente provinciale. 

Le primarie in Campania sono dunque apparse, almeno fino all'altro giorno, come lo stantio replay di mai dimenticati congressi, preludio soprattutto della battaglia per la ricandidatura tris di De Luca a presidente della Regione. È andata così fino a sabato sera, non potrà più essere così da oggi, a meno che non si voglia ignorare per l'ennesima volta la lezione che viene dai gazebo. Ne prenda atto De Luca, ma allo stesso modo coloro che si sono visti lunedì scorso al circolo Politecnico, ex dirigenti comunisti ed ex assessori della Margherita allevati nella Dc. L'occasione è stata la presentazione del libro di Mario Tronti che significativamente si intitola «Il popolo perduto. Per una critica della sinistra». Un momento di riflessione sui mille errori commessi ma la presenza di Zingaretti, e l'assenza del governatore, hanno inevitabilmente impresso a quell'appuntamento il marchio di un'adunata congressuale, al pari della presentazione del libro di Renzi, avvenuta sempre a Napoli a pochi giorni dal voto alla presenza di Piero De Luca e anche di Maria Elena Boschi, a sua volta schierata con Giachetti. Manovre della vigilia che ora stridono rispetto a ciò che è accaduto ai gazebo. Il popolo del Pd ha votato in massa non solo per far vincere uno o l'altro candidato, piuttosto per dire «esistiamo», riaffermare l'idea che un'alternativa al governo gialloverde può essere costruita. Ci vorrà tempo e sudore mentre nell'immediato un primo obiettivo sul piano nazionale, pur se di piccola portata, è stato raggiunto: la vittoria del presidente del Lazio eviterà nuove perdite al partito, visto che gli ex Ds, che erano rimasti malvolentieri, non hanno più alcuna ragione per andare via e probabilmente tornerà anche qualcuno tra coloro che sono andati via con Leu. A sua volta l'ala renziana, che ha promesso di voler restare, almeno nell'immediato non potrà dare vita alla temuta scissione. Le guerre fratricide di questi anni per un po' dovrebbero dunque esseree sedate, non in Campania dove invece il rischio dell'accentuarsi dello scontro è altissimo.

Qui il partito verrà diretto da chi è minoranza in Italia, con le inevitabili bordate che puntualmente cominceranno ad arrivare da Roma ogni qualvolta ci sarà da prendere una decisione, a partire dalla ricandidatura di De Luca. Avveniva anche agli inizi degli anni Duemila quando Napoli e la Campania rappresentavano un unicum per la forte presenza di Bassolino mentre i Veltroni o i D'Alema di turno alla guida del partito cercavano di imporre altre scelte. Vicende già viste e che la sinistra, nell'era del sovranismo, dovrebbe lasciare accuratamente in archivio. Ecco perché il voto di domenica imporrebbe un cambio di marcia a tutti: che senso ha rimettersi in gioco, anche sul piano personale, se non si riesce a dare voce al nuovo che si aggira nella società italiana e meridionale? Che giovamento può avere il Pd dalla riproposizione di vecchie logiche e lotte intestine che l'hanno messo drammaticamente in ginocchio? Ci sono quartieri di Napoli, come San Giovanni a Teduccio, in cui la sinistra da anni è un lontano ricordo, senza che però siano sopite la voglia di riscatto ed uguaglianza sociale. Neanche i suoi simboli sono stati dimenticati, visto che un gigantesco Che Guevara svetta, grazie a Jorit, sulla facciata di un edificio di Taverna del ferro. La stessa promessa del Reddito di cittadinanza appare vissuta da tanti nei rioni popolari come il pannicello caldo rispetto a un lavoro che non c'è oggi e non ci sarà domani.

La folla ai gazebo sembra dunque invitare il Pd a parlare di questo, dando voce a chi è senza nulla, come a coloro che chiedono nuovi diritti o a chi invoca un futuro per terre martoriate dai veleni della camorra. Ben altro rispetto a «stai con De Luca o contro». La vera sfida è quella di riuscire a stare insieme nonostante l'anomalia campana sia stata consumata: segretario espressione dei perdenti che non riconoscerà a livello locale chi invece ha vinto in Italia. O viceversa. Un «frullatore» già azionato più volte dai capicorrente e da cui potranno venire fuori soltanto nuove sconfitte.
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