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Baby gang, non possiamo più essere solo spettatori

di Piero Sorrentino
Articolo riservato agli abbonati
Lunedì 5 Dicembre 2022, 00:00 - Ultimo agg. : 06:00
4 Minuti di Lettura

Più o meno sette mesi fa – maggio 2022 – sulla questione giovanile in città ci eravamo salutati intorno al lungo tavolo istituzionale del “Patto per Napoli”, l’accordo per favorire interventi educativi, per prevenire l’abbandono scolastico e contrastare le devianze minorili firmato a Nisida dagli allora ministri Bianchi e Lamorgese con il sindaco Manfredi, il prefetto di Napoli Palomba e l’arcivescovo Mimmo Battaglia. Più scuole aperte e più a lungo, attività speciali per i ragazzi a rischio, percorsi di integrazione, e soprattutto 40 milioni di fondi assegnati direttamente agli istituti scolastici. 

Più o meno sette mesi dopo, la realtà della città – che corre sempre più veloce e implacabile delle carte vergate con le stilografiche placcate d’oro – si chiede cosa ne sia stato di quel Patto, quali effetti concreti abbia prodotto, e intanto, mentre lascia aleggiare questa domanda inquietante e fa in modo di infischiarsene allegramente dei documenti firmati a favore di telecamera, produce un pacchetto di materiali alternativi e contrastanti a base di ulteriori aggravamenti e crescite esponenziali di episodi di violenza minorile. 

Chi abbia tempo e voglia di sfogliare le cronache dei giornali di questi ultimi sette mesi avrà di che spassarsela, se così si può dire. Le ultime due integrazioni a questo scintillante faldone in continua evoluzione raccontano di una 13enne disabile, sequestrata e picchiata a Secondigliano da un gruppo di sue coetanee per un “like” su Instagram concesso alla fotografia di un ragazzo conteso da una rivale in amore, e di due 17enni che hanno accoltellato un 18enne che aveva difeso la fidanzata da una serie di pesanti avances in un locale di Bagnoli. 

Certo, sarebbe senz’altro ingeneroso attribuire esclusivamente a una scarsa efficacia di quell’accordo di Nisida la colpa di questi episodi. Lo ha detto bene Luigi Riello, procuratore della corte di Appello di Napoli qualche giorno fa su questo giornale: «Ormai è difficile commentare fatti simili, perché ci danno il senso di un deserto di valori da un lato e dell’uso incontrollato dei mezzi di comunicazione e di un’emulazione in negativo molto infettiva dall’altro. 

Si tratta di ragazzi che avrebbero bisogno di valori di riferimento, che né la famiglia né la scuola sono riuscite a dare loro. E per l’ambiente sociale, per altre ragioni e per una serie di condizionamenti. Ma il mondo è talmente magmatico che è difficile schematizzare. Però è una riflessione che dobbiamo fare, perché la violenza minorile, soprattutto a Napoli, è arrivata a livelli spaventosi». 

Insomma, se è complesso capire e dire bene perché siamo arrivati fin qui, se questa condizione è figlia di mille fili diversi che si intrecciano fino a creare un tessuto compatto e asfissiante, non è certo un buon motivo per tirare i remi in barca e far finta di niente. Che è quello che ormai ci riesce meglio. Chiudere gli occhi, voltare la testa dall’altra parte, aspettare che passi, sperare sempre che non tocchi mai a noi o alle persone a cui vogliamo bene. Oppure vi sembra che siamo pronti a fare qualcos’altro? 

Non sarà politicamente corretto dirlo, ma il punto è che ormai abbiamo faticosamente messo a punto una società pacificata, una comunità civile e ordinata nella sua quasi totalità, e abbiamo scelto di fingere di non vedere che, dentro questa stessa società, opulente vive una parte della popolazione che – per condizione sociale e culturale, per storia e ambiente – ha una consuetudine con la violenza oramai del tutto sconosciuta all’altra parte, la nostra parte, quella civile e perbene. Di fronte alla violenza siamo perciò totalmente sguarniti, indifesi all’idea che condividiamo con loro, o rischiamo di farlo, pezzi importanti delle nostre giornate. Pensando a loro, a quei gruppi che con l’idea e la pratica della violenza invece convivono benissimo, riusciamo tutt’al più a immaginarci come vittime passive, o come osservatori, altrettanto immobili. Siamo diventati i telespettatori di quella violenza. Lì fuori ci sono masse piuttosto consistenti di giovani che non hanno frequentato scuole, che vivono in ambienti insalubri e brutti, la cui famiglia è composta spesso di genitori assenti o altrettanto avvezzi alla violenza, che non hanno praticamente nessuna speranza di staccarsi da quella condizione, che vivono in condizioni di enorme svantaggio economico e culturale, a cui hanno insegnato fin dalla culla che i problemi si risolvono tirando fuori il coltello dalla tasca e i soldi si fanno assai facilmente con una rapina o sorvegliando una piazza di spaccio. Che bisogna intimidire, indebolire, razziare, saccheggiare per guadagnarsi spazio, visibilità e, perché no?, pure un gruzzolo di follower sui social. E di fronte a queste forme disperate e letali di violenza – salvo le solite, lodevoli eccezioni minoritarie di operatori sociali, insegnanti, preti di strada e associazioni di volontari – abbiamo ormai adottato un’unica forma di difesa, la postura ghiacciata dell’animale su strada che si vede venire incontro i fari di un’auto in corsa. Occhi sgranati, espressione terrorizzata e corpo bloccato. Speriamo che mi vada bene e mi sfiori senza investirmi, è il pensiero, perché non sono in grado di fare nient’altro. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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