La didattica a distanza e le maggiori responsabilità

di Massimo Adinolfi
Martedì 7 Aprile 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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L’epidemia è una prova enormemente impegnativa per tutto il Paese; lo è, naturalmente, anche per il mondo della scuola. Il percorso graduale di superamento del lockdown, che prima o poi il Paese dovrà avviare, sarà più difficile per i nostri ragazzi, visto che non è possibile in alcun modo rispettare, negli istituti scolastici, le misure di distanziamento.

Misure che, invece, sarà prudente osservare ancora a lungo. Benché dunque nel Consiglio dei Ministri di ieri si sia ragionato, in via precauzionale, su diversi possibili scenari, è ragionevole pensare che per la riapertura delle scuole se ne riparlerà dopo l’estate. 

Sapendo però che la didattica a distanza non scomparirà con il nuovo anno scolastico: la ministra Azzolina lo ha già esplicitamente dichiarato. Si lavora, dunque, su due versanti: uno riguarda il completamento dell’anno in corso, lo svolgimento dell’esame di Stato e dell’esame di terza media; l’altro, il cambiamento più profondo, almeno in parte irreversibile, comportato dall’introduzione di nuove modalità di didattica online.

Sul primo versante, il governo è meritoriamente orientato a non far passare l’anno in cavalleria. Bisogna aspettare ancora, per una decisione definitiva, ma se l’esame ci sarà, anche in una forma semplice, e se non ci sarà nessun 6 politico, come la ministra ha più volte affermato, è una buona notizia: vuol dire che non si butterà l’anno, anche se settembre, forse ottobre dovranno essere dedicati ad azioni forti di recupero delle insufficienze. Fin d’ora, però è importante che alle scuole, alle famiglie, ai docenti e agli studenti arrivi un messaggio chiaro e univoco, il che purtroppo non è cosa che, in queste settimane, sia sempre avvenuta.

Sull’altro versante, il discorso è più complesso. Siamo entrati in quarantena con una mezza idea che sarebbe finita a breve. Le lezioni a distanza sono cominciate su basi volontarie: da oggi, non è più così. Le scuole sono d’ora innanzi tenute a fornire i loro servizi su piattaforme telematiche. Dato per risolto o in via di soluzione il dato formale e amministrativo, relativo alla cornice normativa da apprestare, restano due ordini di problemi.

Uno riguarda le condizioni materiali dell’insegnamento a distanza, dal momento che non tutti hanno le stesse possibilità di accesso alla Rete, a non dire delle diverse condizioni fisiche, abitative, in cui i ragazzi possono ascoltare le lezioni e lavorare sui compiti assegnati. L’altro riguarda il senso stesso dell’insegnamento, del lavoro didattico, dell’istruzione e della formazione possibili online.

Quest’ultimo problema pare a me il più rilevante, perché non richiede solo un investimento economico – un terzo degli italiani non dispone di un pc, anche se in conferenza stampa ieri Conte ha sostenuto che il diritto di connettersi dovrebbe ormai essere riconosciuto come un diritto fondamentale di libertà, garantito costituzionalmente –, ma anche una non piccola rivoluzione culturale. All’idea che si possa fare lezione a distanza si reagisce infatti lamentando che certe condizioni del rapporto didattico si possono realizzare solo in presenza. Non solo la possibilità di controllare, verificare e, quindi, valutare il lavoro effettivamente svolto dagli studenti, ma anche la possibilità di stabilire una relazione autenticamente educativa. Bisogna guardarsi negli occhi, insomma, per insegnare e apprendere. Il che è vero, e l’obiezione sarebbe decisiva se si pensasse alla didattica a distanza come a un’evoluzione tecnologica in grado di sostituire una volta per tutte il lavoro in aula.

Ora, è chiaro che così non può essere, ma è chiaro pure che la didattica online può invece essere un valido supporto che si affianca ad altre modalità di insegnamento (anche se, in questa fase emergenziale, è l’unico strumento che è possibile mettere in campo per non buttare via l’anno). 

Il vero problema, piuttosto, è un altro. Con la didattica a distanza il docente si allontana, ma il genitore si avvicina. Io posso entrare in camera e ascoltare il professore. Sapere quel che fa e come lo fa. E giudicarlo.

Quel luogo separato, in certo modo protetto, che è l’aula, non ha, infatti, più muri. Anche il docente, di conseguenza, è meno protetto, la sua autorevolezza più esposta. È inevitabile che sia così, e non è necessariamente un male. Ma è un cambiamento, per il quale, forse, non siamo ancora culturalmente e psicologicamente attrezzati. L’avventura del sapere occidentale è cominciata con un maestro, Pitagora, che faceva lezione stando dietro a una tenda, invisibile ai suoi allievi, che di lui sapevano soltanto – così si diceva – che aveva una coscia d’oro. Oggi, rischia di non rimanere più neppure un lembo di quella tenda, e di quel mito.

Nessun «ipse dixit», insomma, e forse questo è scritto nella stessa evoluzione di una scuola democratica. Ma attenzione: occorrerà pure che corrispondentemente cresca, in tutti, un forte senso di responsabilità individuale, perché una parte molto maggiore dell’apprendimento sarà affidato alla volontà-di-apprendere dello studente (e della famiglia che già oggi, parteggia molto più per i figli che per la scuola). Stabilire nuovi equilibri non sarà dunque facile, le invasioni di campo saranno più frequenti, ma temo sia una partita che bisognerà comunque, in futuro, giocare. 
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