L'appellite e la militanza ​che si limita a una firma

di Piero Sorrentino
Lunedì 1 Marzo 2021, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Nel secolo scorso, cioè una vita fa, si chiamava «impegno». Era il modo in cui si definiva il gesto pubblico con cui gli intellettuali spezzavano la gabbia del mestiere di letterato per prendere posizione sui temi di ordine civile e politico. Da Émile Zola col suo “J’accuse!” nel caso Dreyfus in poi, la stagione degli scrittori engagée ha incontrato nel corso della sua storia tantissimi stili argomentativi e molte forme di militanza. Anche in Italia, che anzi è stato – soprattutto intorno agli anni ’70 del Novecento – un laboratorio estremamente vivace e interessante, da Pasolini a Sciascia, da Fortini a Natalia Ginzburg. Erano espressioni di interesse per la disputa politica e civile che toccavano varie forme, dalla serrata presenza con articoli sui quotidiani a conferenze, libri, interviste. L’obiettivo, più o meno, era lo stesso per tutti: ripristinare una supremazia politica attraverso la presa di parola. 

Quante di queste forme e motivazioni sono rimaste vive oggi? Difficile dirlo. Non c’è probabilmente esercizio più complicato del confrontare il mondo di ieri con quello di oggi. 

Eppure, guardando le immagini del corteo per Ugo Russo dell’altro giorno, è difficile non lasciarsi prendere dalla tentazione di fare una verifica proprio in quel punto incandescente che si apre tra le parole e i fatti, gli appelli e i corpi, l’inchiostro e il marciapiede. Perché in fondo un po’ colpisce che gli intellettuali che nelle settimane scorse hanno sottoscritto la petizione per chiedere che non venisse cancellato il murale per il giovane rapinatore ucciso non abbiano preso tutti parte alla manifestazione.

Una incrinatura che segna un elemento ricorrente, soprattutto qui in città. La tendenza, da un lato, a una superfetazione di documenti, raccolte di firme, in una appellite sempre un po’ incontrollata e confusa, una febbre furiosa che, per dirla con Italo Calvino, prevede «la costruzione di una società attraverso il lavoro di costruzione di una letteratura».

Dall’altro lato, l’abitudine un po’ sonnacchiosa a farsi bastare la firma sotto un documento, il clic sotto la pagina di raccolta adesioni, spesso tralasciando il passaggio successivo che completa quel momento iniziale fatto solo di parole: l’uso del corpo, l’arma più politica che esista. Intendiamoci: è giusto, è sacrosanto che un intellettuale che intenda prendere posizione su un fatto pubblico abbia non solo il modo di poter dire la sua, ma che abbia tutte le garanzie affinché questo possa avvenire anche se la sua posizione è minoritaria.

Su questioni complesse non si può agire col bazooka, e se uno scrittore ritiene di doversi esprimere contro il pensiero comune è fondamentale che lo faccia. Della questione intorno al murale di Ugo Russo, per dire, io non sono riuscito a farmi un’opinione né in un senso né in un altro, ma sono felice di aver potuto leggere i nomi – tra questi, di molte persone che conosco e che stimo – di intellettuali che hanno ritenuto di dover difendere quel manufatto.

Vuol dire che c’è un pensiero all’opera, e quando un pensiero si manifesta e può pubblicamente articolarsi questo è sempre un bene, un momento fondamentale da difendere sempre. Ribadita l’urgenza insopprimibile dell’interventismo politico, laddove se ne avverta la necessità da parte di un umanista, però, bisognerebbe aprire un secondo fronte di discussione che ruota intorno alla domanda: “E poi?”. Dopo gli appelli, poi cosa accade o deve accadere? Dopo la militanza, dopo l’esigenza di schierarsi, che cosa succede? Non è, per esempio, un proposito un po’ ingenuo ritenere che basti una firma in calce a un foglio?

L’attivismo disorganico non rischia di esporre il fianco ad accuse di predicare bene e razzolare male, soprattutto da destra, dove la militanza civica degli intellettuali viene vista ogni volta come fumo negli occhi, come ennesima espressione di sinistra salottiera che funziona benissimo fino a quando si tratta di salvare il mondo seduti sul proprio comodo divano? 

Per quanto del tutto sensata e indiscutibile, una tale forma di impegno civile mostra la corda proprio nel momento in cui dalla carta si passa alla Realtà, che è sempre una cosa più stratificata, problematica e composita di qualsiasi documento. Napoli, pressoché da sempre, soffre continuamente di questo, delle divaricazioni tra ciò che su di essa si pensa e ciò che si fa, tra ciò che viene trasfuso in parole e ciò che concretamente si realizza. Quante ne abbiamo viste? Quante tonnellate di parole marcite abbiamo pronunciato o ascoltato pronunciare? E a quanta mancata concretezza, a quanta mai raggiunta effettività abbiamo assistito? Non ho una soluzione in tasca pronta all’uso in tasca, come quasi sempre. Ma mi sembrano domande, questo sì, che non dovremmo mai smettere di continuare a porci. 

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