Come si spreca la benzina ​della cultura

di Piero Sorrentino
Mercoledì 13 Novembre 2019, 00:00
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Le colline aspre, le nuvole nel cielo largo, l’orizzonte sconfinato, una diligenza che solleva polvere sullo sfondo. Gli amanti dei film western lo conoscono bene: è il campo lungo dei film con cowboy, sceriffi e indiani; lo spazio sterminato dei paesaggi americani che diventa il principale protagonista delle pellicole. Uno spazio affascinante, certo, ma che inghiotte i corpi degli attori, che ne cancella le identità, che ne dissolve le caratteristiche. 

Si vede l’insieme, ma si perdono i dettagli. C’è il panorama, ma mancano le persone. Non è forse, questo, lo stesso spazio enorme che sembra aver inghiottito l’idea del fare cultura in una città come Napoli? Non è in questo totale cinematografico che l’attuale amministrazione De Magistris ha abbandonato, o forse smarrito, la consapevolezza della centralità e della unicità di un settore così decisivo come quello culturale?

Allo stesso modo della notte di Hegel in cui tutte le vacche sono nere, se tutto è uguale a tutto, allora nulla in fondo conta davvero. Nulla deve essere protetto, tutto può essere sacrificato. Vittorio Del Tufo, ieri su questo giornale, lo ha detto benissimo: usare come moneta di scambio di «un rimpasto politico (anzi partitico) non solo un bravo assessore come Daniele ma una voce, un settore, un ambito come quello della cultura significa ridurre la stessa cultura a bene di scambio, significa considerarla spendibile nel gran mercato degli strapuntini». Come la libbra di carne de «Il Mercante di Venezia» di Shakespeare, l’assessorato alla Cultura è stato usato come penale da pagare all’usuraio Shylock, trattato come un gioiello di famiglia da sbattere sul banco del Monte dei Pegni di una maggioranza purchessia in consiglio comunale.

Eppure ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che, al contrario di quanto aveva suggerito Giulio Tremonti con quella sua infelice sparata, con la cultura si mangia eccome. Musei, teatro, cinema, arte, beni architettonici e culturali sono benzina per un Paese, linfa irrinunciabile per una comunità, sangue e ossa di una città. Promuovono Bellezza e Conoscenza, certo. Irrobustiscono i cuori e le anime. Ma – volendoci tenere bassi, lungo un discorso di cinica realpolitik – muovono soldi, creano valore economico, alimentano l’indotto, nutrono commercianti e albergatori. Una cultura che si muova lungo i binari di una visione di lungo periodo, che possa volare sulle ali di un progetto ampio, diventa immediatamente cartamoneta per una città (chi volesse approfondire può leggere un agile e brillantissimo volumetto di Paola Dubini intitolato «Con la cultura non si mangia? Falso!» pubblicato da Laterza). Comprendere e accettare l’urgenza di un simile tema dovrebbe essere il criterio essenziale di discriminazione politica che una amministrazione dovrebbe saper compiere.

Ci sono ambiti che possono diventare oggetto di scambio politico, e ambiti che invece vanno ritagliati dai mercanteggiamenti partitici. Ci sono settori che vanno difesi non solo nell’apparenza ma nella sostanza, lontano dai giochi di formalismi della politica. E quello della cultura è precisamente uno di questi. Giocare al poker della politica trasformando in fiche l’incarico a un assessore come Nino Daniele – che in questi anni ha dimostrato garbo, competenza, intelligenza, e la pioggia di indignazione per la sua sostituzione che in queste ore sta montando sui social network è una spia non trascurabile – significa svilire il ruolo occupato negli anni passati da predecessori importanti come Renato Nicolini o Guido D’Agostino. Esporre all’impeto delle giravolte partitiche una casella così centrale non fa altro che rendere Napoli e i suoi cittadini un po’ più fragili di quanto non siano già. Non si difende una città scambiandone settori nevralgici per una navigazione un po’ meno avventurosa in consiglio comunale.
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