Donnarumma e i milioni alla tempia

Martedì 12 Dicembre 2017, 23:02
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Gli hanno puntato 44 milioni di euro alla tempia e gli hanno intimato di firmare il contratto. Undici milioni (lordi) all’anno per quattro anni. Le cronache, a proposito del rinnovo del contratto con il Milan, narrano una storia più o meno così.

Approfittando dell’assenza dall’ufficio dell’agente Raiola, il suo diavolo custode, e persino del suo legale, avvocato Rigo, sceso in sciopero selvaggio per ragioni tuttora ignote, ma sicuramente insindacabili, i dirigenti del Milan, l’11 luglio scorso, completarono l’opera di pressione psicologica nei confronti di Donnarumma Gianluigi, detto Gigio, di professione portiere, di calcio non di albergo, costringendolo a sottoscrivere un contratto, non a sua insaputa, ma contro le sue volontà. Esercitando ulteriore opera di coercizione con l’inserimento di una subdola clausola tesa a garantire al di lui fratello, Donnarumma Antonio, un contratto, da riserva del portiere di riserva, dal modico valore di un milione l’anno.
Una violenza inaudita. Certo, violenza morale. Ma tale da poter portare all’annullamento del contratto, sostiene l’avvocato Rigo, rientrato al lavoro, ai sensi dell’articolo 1435 del codice civile: «La violenza deve essere di tal natura da far impressione sopra una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevole». Ingiusto e notevole. Come dimostrato successivamente dalla classifica dell’Associazione Calcio Milan, indegna di un Top Player, concupito da squadroni come il Real Madrid o il Paris St. Germain. Forse non ci sarà neppure bisogno di ascoltare la testimonianza, richiesta dall’accusa, di Montella Vincenzo, che ebbe l’ardore nei giorni precedenti il misfatto, di presentarsi addirittura in casa dei genitori del Donnarumma medesimo per esercitare ulteriori pressioni psicologiche. Sì, proprio quel Montella che poi sarebbe stato esonerato dal suo incarico. A dimostrazione dell’inaffidabilità completa dei datori di lavoro del violentato Donnarumma.
Si scherza, naturalmente, ma il problema è serio e complesso. Uno dei più complessi del calcio del XXI secolo. Attiene allo strapotere che i calciatori, e i loro procuratori, stanno acquisendo nei confronti delle società. All’utilizzo sempre più unilaterale dello strumento contrattuale. Si è passati dal vincolo, d’accordo un po’ schiavista, del secolo scorso, al ricatto continuo. Si pretende, giustamente, che i club mantengano gli impegni sottoscritti, mentre dall’altra parte si ha sempre il coltello dalla parte del manico: il giocatore che se ne vuole andare – per guadagnare di più o per trasferirsi in una squadra più importante o per tutte e due le cose insieme – alla fine ce la fa. Un modo lo trova sempre. Si è passati dai lamenti continui per condizionare l’ambiente al rendimento abbassato di proposito, dai rinnovi rifiutati per potersi liberare a parametro zero addirittura all’elusione degli impegni di allenamento attraverso la presentazione di certificati medici compiacenti (ultima moda dell’estate scorsa: non partecipare ai ritiri pre-campionato).
Siamo arrivati al punto che la clausola rescissoria sta diventando il modo più onesto per lasciarsi. Almeno, in questo caso, la volontà di inserirla nel contratto dev’essere per forza condivisa da entrambe le parti. Ma ha senso una clausola rescissoria in un contratto di lavoro subordinato? O, meglio ancora, ha senso che le attività dei calciatori di Serie A abbiano la stessa qualificazione giuridica di quelle degli operai edili? Ci sono più affinità fra un calciatore di grido e un metalmeccanico o fra un calciatore e un attore? Eppure, ogni calciatore, dalla Serie C alla massima serie, dalla Paganese al Napoli, è considerato lavoratore dipendente e gode di tutte le tutele contrattuali dei lavoratori dipendenti, stessi diritti e stessi teorici doveri. Tanto che le società di calcio sono tenute, come qualsiasi altra impresa, a compilare il Libro unico del lavoro, e cioè annotare retribuzione, ferie, malattie e assenze dal luogo di lavoro del giocatore. Che poi i calciatori trattino i loro compensi al netto e non al lordo delle ritenute fiscali è particolare tutt’altro che secondario, perché denota, oltre al loro senso civico, anche la specificità delle prestazioni.
Ovviamente questa è una problematica non solo italiana, ma da tempo in Italia si discute della necessità di rivedere la Legge 91/1981 che disciplina il professionismo sportivo. Forse arrivare a modificare la natura giuridica del lavoro da subordinato ad autonomo è un passo troppo lungo, ma sicuramente l’idea di ridefinire a livello normativo la connotazione del calciatore professionista, introducendo nell’ordinamento una qualificazione di lavoratore ad hoc, che superi la distinzione fra subordinato e autonomo, andrebbe approfondita, magari prevedendo figure professionali intermedie in modo da poter distinguere fra giovane giocatore in qualche modo “apprendista” di Lega Pro e fuoriclasse riconosciuto .
Così come si dovrebbe sviluppare a livello internazionale un’iniziativa tesa ad armonizzare il contratto tipo, in modo da ridurre la possibilità di autodeterminazione, cioè di mancato rispetto degli impegni, dei calciatori. Un esempio: negli ultimi anni si è estesa la pratica dei bonus, e cioè è stata inserita una parte variabile della retribuzione legata al conseguimento di determinati obiettivi. Allo stesso modo, si potrebbe inserire una serie altrettanto consistente di malus, legati al mancato rendimento del giocatore, ai risultati sportivi negativi della squadra, anche (discorso un po’ più delicato) al ripetersi di infortuni che ne limitino l’impiego. Oltre a prevedere la possibilità di rescissione in caso di comportamenti non professionali gravi o provocatori. L’obiettivo cioè è riequilibrare il rapporto fra le parti che, come spesso ha denunciato più volte lo stesso De Laurentiis, pende dal lato dei calciatori.
Donnarumma comunque è solo la pietra di uno scandalo del quale non è unico responsabile. Né lui, né Raiola. Perché anche nel calcio la verità non ha una sola faccia della medaglia. Se domani venissimo a scoprire che è stato il Milan a divulgare i suoi malumori soltanto per metterlo in cattiva luce con la tifoseria e poterlo così cedere senza sollevare una rivolta popolare, beh, non ne saremmo così sorpresi. 

 
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