Fa capolino periodicamente la notizia – ne ha parlato Federico Fubini sul Corriere – che, a dispetto della disoccupazione dilagante, mancano a molte imprese i lavoratori con profili che servirebbero loro. Ma molto più drammatico – e ben più arduo da colmare – è il gap che sta venendo fuori in questi giorni.
Quello dei quadri intermedi, il middle management cui dovrebbe essere affidata l’attuazione del Recovery Plan, e spesso la sua regia. È un vuoto che si è ampliato in questi anni, per i limiti della nostra offerta formativa e l’incapacità del sistema Italia di assorbire quei pochi con le competenze adeguate, costretti a fare la valigia. Se ne è accorto per primo Brunetta, che ha dovuto riaprire i termini per il concorsone per il Sud bandito da Provenzano, e di cui ha scritto Santonastaso su questo giornale sabato. L’obiettivo sarebbe assicurare 2800 figure tecniche con contratti a tempo determinato per 36 mesi, «in grado di superare i nodi di capacità progettuale e di modernizzazione emersi in questi anni anche a causa dell’impoverimento della dotazione di personale degli enti locali, tra blocco del turn over e dei concorsi». Ma, dopo la selezione per titoli, in molte regioni alla prova scritta si è presentata meno della metà degli ammessi.
Troppo poco appetibile la posta? Troppo arduo il test? Più probabilmente, i profili richiesti, riservati a competenze di altissimo livello ma comunque limitati a tre anni, hanno tenuto alla larga i migliori e scoraggiato i meno preparati. Resta il dato di uno scollamento evidente tra domanda e offerta. Che si potrà risolvere soltanto abbassando l’asticella delle pretese da parte della PA. Un problema analogo si sta ponendo, in queste settimane, nello sforzo di rimpinguare i ranghi delle task force che, presso i diversi ministeri, dovrebbero coadiuvare il Mef nell’organizzare i flussi – di progettazione, implementazione e rendicontazione – dei fondi stanziati nel PNRR. Una sfida contro il tempo – e contro la ragnatela della nostra burocrazia – che metterà duramente alla prova il meglio del nostro milieu manageriale. È improbabile che simili figure siano oggi disoccupate.
Non ci sono scorciatoie per uscirne. Ma mentre – inesorabilmente – tutti i decisori si affannano a tappare ciascuno i propri buchi in un mercato a corto di toppe, si potrebbe almeno mettere mano seriamente al problema che sta a monte: il deficit di formazione altamente qualificata. Sia in ingresso che on the job. Fino a qualche anno fa, sarebbe stata un’impresa titanica. Oggi, grazie alla rete e – si fa per dire – alla pandemia, i grandi atenei internazionali, in sinergia con le migliori imprese, stanno diventando il nuovo hub per le lauree specialistiche e i master più richiesti dal mercato del lavoro. Programmi che si possono montare – ed erogare – in pochi mesi, per preparare e accompagnare ai compiti più impegnativi. In Italia ci sono tutti i presupposti per giocarsi al meglio questa sfida. Ma il tempo stringe.
Dopo il mantra dell’uno vale uno, ci si sta finalmente accorgendo della voragine che si è aperta nella piramide meritocratica. Ma il rischio è di rispolverare vecchie ricette e vecchie scuole, con pochi iscritti e rette salate. Al contrario, la digital education consente di democratizzare la formazione di qualità, preservandone standard elevati. E, grazie alle tecnologie più innovative, offrire contenuti di avanguardia a platee molto più ampie. Come nel caso della Smart Export Academy, promossa dal Maeci e dall’Ice, col contributo delle migliori business school, che già conta oltre 6mila iscritti tra PMI e professionisti del settore. Un benchmark che si potrebbe riproporre agevolmente in molti altri contesti. Basterebbe convincersi che il cuore della rivoluzione digitale non è informatico, ma culturale.