Giorgio Napolitano, il suo amore per il Sud e le radici

di Umberto Ranieri
Sabato 23 Settembre 2023, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Finchè le forze lo hanno sorretto, Giorgio Napolitano ha continuato a lavorare, riflettere e scrivere sulla vicenda politica italiana ed europea. Lo ha fatto con la intelligenza della realtà e la passione che hanno segnato l’intera sua vita politica e intellettuale. Lo ha fatto coerente con la lezione di Benedetto Così rifletteva Croce: «La morte sopravverrà a metterci a riposo, a toglierci dalle mani il compito cui attendevamo ma essa non può fare altro che interromperci, come noi non possiamo fare altro che farci interrompere perché in ozio stupido essa non ci può trovare».

I suoi ultimi scritti sui dilemmi della integrazione europea colpiscono per l’acutezza dell’analisi e la padronanza delle questioni. Forse il testo più bello e denso fu il saggio che fa da introduzione alla nuova edizione di “Moniti all’Europa” una raccolta di scritti di Thomas Mann. Un saggio classico e di vibrante attualità lo definì Magris. 

Giorgio Napolitano fu tra i giovani giunti al Pci alla fine della guerra attratti dalla politica di unità nazionale e di ricostruzione dell’Italia portata avanti dal partito guidato da Palmiro Togliatti. Le radici del suo rigore politico affondano nella lezione di Giorgio Amendola. Un rigore che egli coltivò in un colloquio continuo con i classici del pensiero liberale e meridionalista. Aiutò con la sua battaglia politica il Pci prima, poi il Pds e i Ds a ritrovare il filo ideale del rapporto con la cultura politica più moderna della sinistra europea. Lo fece affrontando esplicitamente nel Pci i nodi a cui la impazienza di Amendola aveva solo indirettamente alluso. Nella storia del Pci andrebbe studiata quella cultura che guardava al movimento socialdemocratico e si mostrava interessata al revisionismo socialista, una cultura riformista nella sostanza, determinata nell’avversione al massimalismo e alla demagogia. Una storia di minoranza che segnala la presenza di un impulso nella vicenda del Pci ad un corso diverso della strategia politica comunista. Giorgio Napolitano seppe guardare criticamente e con severità a ingannevoli convinzioni che da giovane dirigente comunista condivise con una intera generazione di militanti. Egli fu, a partire dagli anni Sessanta, la personalità più rappresentativa della tendenza tesa ad una esplicitazione della scelta riformista da parte del Pci ed a perseguire una alleanza tra il movimento operaio e la borghesia liberale italiana. Una tendenza che restò sempre minoranza. Dopo la svolta del 1989 Napolitano continuò la sua battaglia nel Pds e nei Ds per contrastare regressioni politiche, ambiguità culturali, per costruire una forza democratica della sinistra collocata nel campo del socialismo europeo, dal netto profilo di governo. Una forza capace di non disperdere, come invece accadde, il nucleo vitale della tradizione socialista italiana. 

Mi colpiva di Giorgio Napolitano, negli anni lontani dei primi incontri a Napoli, io giovane comunista e lui autorevole dirigente del Pci, la saldezza di un orientamento politico e ideale.

Napolitano conobbe e frequentò il grande economista Piero Sraffa, l’autore della riforma del pensiero economico marxiano, ebbe un intenso scambio intellettuale con lo storico Eric Hobsbawm, intensa fu la collaborazione con Jaques Delors di cui condivise la strategia per portare avanti il processo di integrazione europea, discusse con Peter Glotz e Ralf Dahrendorf del delinearsi della “società dei due terzi”, la società in cui due terzi godono dei benefici del welfare mentre un terzo ne rimane escluso. Una discussione che suscitò in Giorgio l’interesse verso il lavoro di John Rawls introdotto in Italia da Salvatore Veca protagonista della battaglia ideale condotta dai “miglioristi” nel Pci. Il tema Mezzogiorno fu sempre al centro delle sue riflessioni. Lo testimoniano i numerosi incontri a Rionero in Vulture per ricordare l’opera di Giustino Fortunato, a Melfi per parlare di Francesco Saverio Nitti, il più moderno studioso della economia meridionale, il sodalizio con Rosario Villari, la intesa intellettuale con Peppino Galasso. Giorgio amava Napoli, si sentiva fino in fondo napoletano. Difese la città contro gli stereotipi che l’assillano, combattè la “napoletaneria” di cui scrisse il suo amico La Capria. Della sua esperienza di dirigente del Partito comunista a Napoli, Giorgio ricorderà sempre la lezione di intelligenza politica della classe operaia, dalle fabbriche di Pozzuoli a quelle di Castellammare, alla Italsider di Bagnoli e mantenne un forte rapporto di affettuosa amicizia con tanti operai dirigenti sindacali e militanti del Pci.

Napolitano fu uomo delle istituzioni. Presidente della Camera dei deputati tra il ‘92 e il ‘94, in una fase tra le più aspre della storia della Repubblica, ministro degli Interni dal ‘96 al ‘98, presidente della Repubblica dal 2006 al 2015, gli anni della grande crisi finanziaria. Grazie alla sua iniziativa l’Italia riuscì ad affrontare il passaggio dell’autunno 2011 quando l’intreccio tra crisi finanziaria e collasso politico istituzionale sembrava condurre il Paese al fallimento. Al Quirinale Giorgio mostrò insospettabili riserve di energia e determinazione nello sforzo teso a richiamare i governi alla realizzazione delle riforme economiche e istituzionali, tra cui quella della giustizia. I suoi appelli furono vanificati dalla rissosità tra gli opposti schieramenti. La situazione di impotenza dei partiti spiega l’azione della presidenza della Repubblica che per l’autorità di cui godeva, per i poteri che la Costituzione le riconosceva operò come “motore di riserva” quando la maggioranza parlamentare e il suo governo entrarono in una situazione di stallo. Subirà duri e spesso miserevoli attacchi da parte di destra e populisti di tutte le risme. Agli attacchi sconsiderati, alla fatica, alle amarezze Giorgio saprà resistere conservando quella signorilità che era dell’animo prima che del comportamento. 

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