Premierato, il peso degli eletti all'estero

di Giuseppe Vegas
Sabato 27 Aprile 2024, 23:16
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Il 15 giugno dello scorso anno su queste colonne era stato evocato il problema della scelta dei migliori da mandare a Bruxelles. Questione divenuta oggi di moda, ma fuori tempo massimo. In quell'occasione si ricordava una particolarità. Che la legge italiana per le elezioni europee si basava, in modo assai singolare, su di un sistema elettorale proporzionale con indicazione delle preferenze. Meccanismo che di per sé premia i politici maggiormente in grado di attrarre voti; ciò non significa che anche, automaticamente, selezioni i più capaci. Soprattutto quando occorre disporre di conoscenze internazionali, manovrare regolamenti e legislazioni di grande complessità e padroneggiare le lingue straniere. Un anno fa ci sarebbe stato forse il tempo per modificare il sistema elettorale. Ma, come era già allora facilmente prevedibile, non se ne è fatto nulla.

Oggi si presenta una situazione in parte analoga, in vista della riforma costituzionale del premierato, che dovrebbe vedere la conclusione del suo iter parlamentare la prossima settimana.

Occorre premettere che la riforma della costituzione del 2001 ha consentito agli italiani all’estero di eleggere otto deputati e quattro senatori. Senza voler esprimere giudizi sulla discussa normativa, va ricordato che essa ha comportato effetti sostanzialmente neutri nella vita politica nazionale. Se si esclude la richiesta di qualche contributo finanziario e trascurabili episodi, qualche volta anche folcloristici, di trasformismo.

Ciò non di meno, la riforma di vent’anni fa ha introdotto un meccanismo che non si concilia molto con la regola fondamentale che presiede alla vita delle democrazie rappresentative. Quella che discende dal principio in base al quale il voto popolare trova la sua ragione nel diritto dei cittadini di limitare il potere di imposizione del sovrano. “No taxation without representation” proclamava già la Magna Charta nel 1215. Si tratta di una pietra miliare di tutto il mondo democratico.

Orbene, gli italiani all’estero vivono in un altro Paese e lì pagano le tasse. Dunque in Italia votano ma non pagano. Nei loro confronti non vige la regola della responsabilità in conseguenza delle scelte che i politici da loro eletti andranno ad adottare. Per fare un esempio paradossale, potrebbero, se un giorno fossero in maggioranza, istituire una nuova tassa a carico esclusivo dei cittadini residenti, destinandone interamente il provento a quelli non residenti. Insomma, per dirla con George Orwell, la nostra legge li rende “più uguali degli altri”.

A ben vedere, attualmente si tratta di un problema non particolarmente rilevante, dato che la rottura della regola generale finora ha prodotto effetti modesti. Dato che lo spirito dell’attribuzione del diritto di voto all’estero non risponde ad altro che alla concessione di una sorta di “diritto di tribuna“, cioè al riconoscimento dell’opportunità di dare voce ai portatori di specifici interessi, senza però conferir loro contemporaneamente un reale potere decisionale.

L’esiguo numero di parlamentari eletti all’estero, dodici rispetto ai seicento complessivi, non li pone in grado di alterare il corso delle decisioni politiche.

Proprio per questo, il numero massimo di eletti è definito dalla Costituzione senza tener conto della consistenza numerica effettiva dei nostri concittadini residenti all’estero. Infatti, il meccanismo elettorale, che si basa su mega-collegi di diversissime e sproporzionate dimensioni, è stato pensato solo per dar voce alle loro rappresentanze. Come dimostra il fatto che il numero di voti necessari per eleggere un deputato varia considerevolmente in funzione del luogo in cui il voto è espresso. Ne consegue che, se pur crescesse anche di molto il numero degli iscritti degli elenchi dell’Aire, gli eletti non potrebbero aumentare.

Un domani, quando invece saranno chiamati a scegliere il premier e la sua maggioranza, cambierà tutto. Il loro voto non avrà più le caratteristiche dell’esercizio di un potere limitato in ragione dello scarso numero degli eletti. In questo caso ogni testa varrà un voto. Esattamente come in Italia.

Così un semplice diritto di tribuna si trasformerà in quello di esercitare un potere politico nella sua integrale e totalizzante pienezza. Con la peculiarità, tuttavia, che una simile forza verrebbe riconosciuta, in modo alquanto dirompente, a soggetti che, per esplicita previsione addirittura costituzionale, non sono chiamati ad assumersi la responsabilità, anche economica, delle loro scelte.

Non mancherebbero poi anche conseguenze politiche di tutto rilievo. Basterebbe considerare che attualmente gli iscritti all’Aire sono circa sei milioni, e, se ne valesse la pena, potrebbero facilmente aumentare. Qualora votasse anche solo un terzo di questi potenziali elettori, percentuale ampiamente inferiore rispetto alla media dei voti espressi nelle elezioni domestiche, si potrebbe raggiungere la considerevole cifra di anche un paio di milioni di votanti. Una conseguenza di tutto rispetto e potenzialmente atta a sconvolgere i rapporti di forza tra i partiti attuali, finanche a provocare un terremoto politico. Ma non solo. Gli eletti all’estero potrebbero godere di un formidabile “potere di ricatto” sia sulla scelta del premier, sia sulla formazione delle coalizioni di governo e sul contenuto della legislazione. E il loro “peso” potrebbe offrire il destro a qualche Stato di residenza degli elettori per cercare di influire nei nostri affari interni. Si tratta di conseguenze su cui varrebbe la pena di riflettere.

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