«Ho sparato perché avevo paura»
I traumi e la rabbia di chi ha ucciso

«Ho sparato perché avevo paura» I traumi e la rabbia di chi ha ucciso
di Gigi Di Fiore
Giovedì 4 Maggio 2017, 23:22
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La casistica è infinita e non ha barriere geografiche. Commercianti, pensionati, artigiani, imprenditori, accusati dell’omicidio di uno o più ladri che si erano intrufolati nelle loro case o nei loro negozi, hanno dovuto affrontare processi mai scontati. Con le norme ancora in vigore sulla legittima difesa, ogni giudice ha valutato in maniera diversa chi ha sparato al proprio aggressore. E così c’è chi è stato condannato per omicidio volontario e chi ne è uscito con un’assoluzione per legittima difesa. Molti tra quelli che hanno già scontato una condanna in carcere ricordano con rabbia e delusione la loro esperienza. È il caso di Salvatore Migliardi, un napoletano di 47 anni che il 19 settembre 1991 uccise un uomo entrato alle nove di sera nella sua casa di Lettere con l’inganno. Salvatore era con la moglie, affrontò l’intruso che era armato con una pistola ed ebbe la meglio. Strappò la pistola dalle mani del ladro, che fuggì.

«Gli sparai e lo uccisi, poi chiamai la polizia - ricorda Salvatore - Fui accusato di omicidio volontario, ebbi un processo, fui condannato. Il mio avvocato presentò in ritardo la domanda d’appello e divenne definitiva la sentenza che, con le attenuanti concesse ad un incensurato, fu di 9 anni e 4 mesi. Ho scontato 6 anni, 7 mesi e 8 giorni tra Poggioreale e Secondigliano. Ora risulto con un pesante precedente penale, abbandonato dallo Stato. Per difendere me e la mia ex moglie, ho perso lavoro e famiglia».

Salvatore, che ha scontato la pena nel 2002, era chef a Sorrento. Ha dovuto riciclarsi e ora fa l’autista di camion. Ha due figlie, una con la moglie di allora. Ha un convinzione, in questi giorni di discussione della modifica alla legge sulla legittima difesa: «Rifarei quello che feci allora, anche con le stesse norme. Ho dovuto difendermi da solo, dov’era lo Stato quel giorno? Difendermi mi è costato 40 milioni di lire di onorari per l’avvocato».

Vive oggi a San Giovanni a Teduccio, a Napoli. Si è rifatto una vita, ma pesa quell’esperienza di carcere e vita. È macchia indelebile sui suoi precedenti penali. È andata meglio a Francesco Sicignano, pensionato di Vaprio in provincia di Milano. Il 20 ottobre del 2015 uccise Gjergi Gjonj, un ladro albanese entrato nella sua casa che scoprì in cucina. Gli sparò, fu indagato per omicidio volontario e il governatore della Regione Lombardia, il leghista Roberto Maroni, si impegnò a sostenere le spese per la difesa. Non ce ne fu bisogno: un anno fa, l’accusa venne archiviata.

E il pensionato si sfogò: «Porto comunque la condanna di ripensare a quel giovane di vent’anni che ho ucciso. Ho sparato preso dal panico, credevo di morire e ho agito d’istinto. Sfido chiunque, in quella situazione, a non premere il grilletto temendo per la vita». C’è una richiesta di archiviazione anche per Giuseppe Castaldo, il gioielliere che il 7 ottobre del 2015 uccise con la sua pistola i due rapinatori napoletani, Bruno Petrone e Luigi Tedeschi, che lo avevano seguito dopo il prelievo di cinquemila euro in banca a Ercolano in provincia di Napoli. Sulla richiesta del pm Raffaello Falcone c’è stata opposizione dei familiari delle vittime e il 22 giugno dovrà decidere il gip di Napoli. Anche Castaldo, che ha lasciato la Campania, ha sempre un ricordo vivo di ciò che accadde quel pomeriggio.

«Non ci dormo la notte, ho incubi continui, riprovo la bruttissima sensazione di paura che ti taglia le gambe e ti fa reagire d’istinto», ripete. Esperienze traumatiche, l’istinto che ti fa sparare quando ti vedi minacciato o temi un pericolo. Sensazioni comuni, su vicende che continuano a dividere. Drammatica la vicenda del rigattiere inabile Ermes Mattielli di Scalini in provincia di Vicenza, che nel giugno del 2006 ferì con la sua pistola due rom, Blu Helt e Cris Caris, che aveva scoperto in casa armati di spranghe. Uno dei due rimase ferito in maniera grave, ma se la cavò. Mattielli venne condannato in primo grado a 5 anni e a un risarcimento di 135mila euro ai due rom. Lui dichiarò, a commento della decisione: «È una mafia legalizzata, tutelano i delinquenti e non gli onesti. Ma lo rifarei, perché non sono io quello che va a rubare in giro».

Fu polemica, con la Lega nord che si schierò con il rigattiere veneto. Ne scaturì una battaglia giudiziaria, che si interruppe con la morte di Mattielli, fermato da un infarto il primo novembre del 2015. Quattro giorni dopo, morì in ospedale tra i rimpianti e le accuse. Non c’è vicenda uguale ad un’altra, nella statistica dei tanti casi controversi di legittima difesa. E anche le decisioni della magistratura cambiano tra primo e secondo grado. Come nella vicenda di Franco Birolo, tabaccaio di Ciré di Correzzola in Veneto che il 24 aprile del 2012 sentì dei rumori provenienti dal suo negozio. Erano le due del mattino, si armò della sua pistola e affrontò due ladri.

Uno, Igor Ursu, rimase ucciso. Nonostante la richiesta di assoluzione del pm, il giudice condannò in primo grado Birolo a due anni e otto mesi di carcere, aggiungendovi un pesante risarcimento di 225mila euro a favore della madre del rapinatore e 100mila per la sorella. In appello, lo scorso marzo, la sentenza è stata ribaltata: assoluzione per legittima difesa. Venne invece condannato e con sentenza definitiva l’imprenditore edile Antonio Monella di Arzago d’Adda in provincia di Bergamo, che nel 2006 sparò con il suo fucile al diciannovenne albanese Ervis Hoxha, che stava tentando di rubargli il Suv. Lo uccise. L’imprenditore venne condannato per omicidio volontario a sei anni, due mesi e venti giorni, con sentenza diventata definitiva nel 2014. Ma Monella, che si costituì inl carcere, chiese la grazia per buona condotta al presidente della Repubblica.

E il capo dello Stato, Sergio Mattarella, nel novembre del 2015 gli concesse una grazia parziale. Bastò a far scendere la pena residua a meno di tre anni, necessari a farla scontare fuori dal carcere con l’affidamento in prova ai servizi sociali. Anche su questa vicenda scese in campo al Lega nord, che si disse parzialmente soddisfatta dall’iniziativa del Quirinale che aveva «fatto un po’ di giustizia». Particolare fu invece la vicenda di Giovanni Capuozzo, carpentiere di Gioia Sannitica in provincia di Caserta che il 6 luglio del 2012 uccise con un colpo di fucile un ladro albanese, Dasmir Xhelpa, che stava per entrare nelle camere da letto delle figlie in piena notte. Una vicenda che, con la nuova legge passata alla Camera, sarebbe stata valutata in maniera diversa.

Nel novembre del 2014, il giudice Nicoletta Campanaro del tribunale di Santa Maria Capua Vetere condannò il carpentiere per omicidio volontario con il rito abbreviato.
Dieci anni fu la pena, in sintonia con la richiesta del pm. Alla vedova del ladro la sentenza assegnò 50mila euro di risarcimento. Ma la severità della condanna fu motivata anche da una circostanza particolare: invece di chiamare la polizia, il carpentiere caricò il corpo della vittima sul suo camioncino e lo gettò nel fiume Volturno. Fu la vedova a denunciare la scomparsa del marito, indicando dove aveva stabilito di fare il suo colpo. Messo alle strette, il carpentiere confessò, indicando dove aveva scaricato il cadavere. Ora, messo in libertà, attende il processo d’appello.
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