I boss costretti a cercare rifugio nei loro fortini: fuori di lì sono persi

di Isaia Sales
Sabato 2 Marzo 2019, 22:20
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Complimenti alle forze dell’ordine e alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. La cattura di Marco Di Lauro è una bella notizia. Si mette fine alla latitanza di un pericolosissimo capoclan che era riuscito a nascondersi per ben 14 anni, una delle più lunghe latitanze nella storia della camorra napoletana. Il sua arresto è frutto di una intensa e fruttuosa collaborazione tra la Polizia di Stato e l’Arma dei Carabinieri, di un comune ed eccellente lavoro investigativo sotto la guida del procuratore Gianni Melillo. E gli applausi delle persone fuori dalla questura è una notizia ancora migliore: quando gli apparati di sicurezza dello Stato hanno successo, questo si tramuta in un successo dell’intera collettività. Contrariamente a quanto si ritiene, il consenso delle bande di camorra è limitato a coloro che ci vivono attorno, siano essi popolani che ci «campano» o si arricchiscono con il traffico della droga, siano essi professionisti che ne riciclano gli enormi guadagni in attività finanziarie, turistiche, immobiliari o commerciali. Il resto della popolazione è un’altra cosa rispetto alla camorra e ai camorristi.
Vale sempre la pena ricordarlo a chi vuole identificare con i clan camorristici un’intera popolazione e una plurisecolare storia della città partenopea, o vuole ridurre il crimine a uno stigma etnico, territoriale, morale o culturale. Nel Sud ci sono le mafie e chi le combatte; a Napoli ci sono le camorre e chi le contrasta, forze di sicurezza, magistrati, insegnanti, preti, associazioni varie e la maggioranza della popolazione. 
Il giovane Di Lauro è stato arrestato a Napoli, a Chiaiano, a due passi dal territorio che il suo clan ha controllato per anni, assieme a sua moglie, come un normale padre di famiglia, nel luogo in cui si sentiva più tranquillo e coperto. E’ del tutto evidente che in questi 14 anni di latitanza ha continuato a svolgere un ruolo non secondario negli avvenimenti delittuosi della città e del suo hinterland, nella spietata lotta con gli avversari, nella ricostruzione degli equilibri del suo clan che lui stesso aveva rotto cambiando radicalmente i metodi che il padre aveva portato avanti riuscendo a sfuggire per un ventennio (mantenendo un profilo basso e limitando al minimo la violenza omicida) alla repressione delle forze di sicurezza e della magistratura. Ed è proprio nei diversi metodi instaurati dopo la cattura del padre che consiste la forza criminale di Marco Di Lauro e al tempo stesso la sua debolezza. Egli ha voluto ristrutturare il clan con una scelta “giovanilistica” portando ai vertici i suoi amici più giovani e fidati; è stato, insomma, uno dei primi a dare spazio alle nuove leve criminali senza aspettare l’arresto o la morte dei vertici più strutturati e meno propensi all’uso quotidiano della violenza. Ciò ha comportato varie scissioni e una lunga guerra tra ex appartenenti allo stessa banda, ma ha consentito al clan Di Lauro di continuare a competere anche nelle nuove condizioni determinatasi dopo la cattura del padre. Nella contesa militare e quotidiana sulle piazze di spaccio ha potuto contare sempre su forze nuove, reclutate tra giovanissimi senza nessuna attitudine a disciplinare la violenza, ma in grado di garantire “carne fresca” sul fronte della lotta agli altri clan. Se oggi è stato arrestato vuol dire che qualche falla in quel “sistema” si è aperta.
Negli ultimi anni sono stati arrestati più di 30 esponenti di camorra inseriti nell’elenco dei latitanti più pericolosi d’Italia. In proporzione almeno due terzi sono stati scovati a casa loro, nel loro quartiere di residenza o nei dintorni. Gli altri all’estero o in città del Centro-Nord. Tra questi ultimi ci sono veri e propri capi, come appunto Paolo Di Lauro, arrestato nel quartiere napoletano di Secondigliano; Angelo Nuvoletta a Marano; Francesco Schiavone, detto Sandokan, a Casal di Principe; Carmine Alfieri a Piazzola di Nola; Ferdinando Cesarano a Torre Annunziata; Edoardo Contini a Casandrino; Rosetta Cutolo a Ottaviano; Francesco Mallardo a Giugliano; Zagaria a Casapesenna e Antonio Iovine a S. Cipriano d’Aversa. I latitanti hanno fatto figli (Sandokan ne ha fatti due mentre si “nascondeva”), hanno continuato le loro attività anche nei bunker sotto casa, in particolare i casalesi. Come si vede, i luoghi della latitanza spesso coincidono con quelli delle attività del clan. Rifugiarsi all’estero è una eccezione: in genere, è per proteggersi dai clan avversari più che dagli inquirenti. I camorristi si sentono più sicuri a casa loro, nel loro quartiere, nel loro vicolo, nel loro paese.
Anche i camorristi di Napoli città non si muovono dai loro quartieri-Stato, restano vicolo-centrici anche quando fanno affari in giro per il mondo o sono ricercati dalle forze dell’ordine. E c’è un motivo specifico. Il comando nelle bande di camorra napoletane non è gerarchizzato, non è ritualizzato. In Cosa Nostra quando un capo finisce in carcere, quando muore o è latitante, scattano le regole della successione introitate da una lunghissima abitudine. Nelle bande di camorra tutto ciò non vale. Il comando lo esercita chi c’è sul posto e chi si fa rispettare con la violenza. Il comando lo si gioca tutti i giorni in strada, nel vicolo, nelle piazze della droga. La competizione nel mondo di camorra napoletano è spietata, la concorrenza implacabile: se abbandoni il tuo territorio, anche se costretto da un’azione penale, al tuo ritorno non trovi più niente come prima. Altri giovani violenti hanno occupato il tuo posto e gestiscono gli affari che prima gestivi in proprio. La latitanza non è una interruzione nella carriera criminale solo se non ti allontani; se lo fai è l’inizio della tua fine. Perciò restano sul campo anche da latitanti; come ha fatto Marco Di Lauro. Ma qualcosa, alla fine, è andato storto anche grazie alla capacità degli inquirenti che sempre più sono una variabile non considerata da questi giovani capi che pensano sempre di avere il mondo ai loro piedi.
 
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