Unione Europea, il prezzo della credibilità perduta

di Alessandro Campi
Lunedì 20 Luglio 2020, 23:00 - Ultimo agg. 21 Luglio, 08:00
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Il problema dell’Unione europea, come si è visto plasticamente in queste giornate di trattative febbrili sul Recovery Fund che ancora non si riesce a chiudere, è che al suo interno esistono almeno tre Europe, ma forse anche quattro o cinque o sei: tutte legittime, tutte reali. Si tratta di blocchi geopolitici ai quali talvolta si sovrappongono o contrappongono identità storiche di lungo periodo. 

Entro i suoi confini operano convergenze (più o meno tattiche) dettate dall’interesse politico e convergenze (strutturali o contingenti) dettate dalle convenienze economiche. Tra gli Stati membri esistono aggregazioni (e spaccature) che sembrano rimandare ora alla religione ora all’antropologia, talvolta persino al clima, anche se esse spesso rispondono a stereotipi vecchi e nuovi (ma gli stereotipi, quando in essi si crede, condizionano i comportamenti anche se falsi o grossolani). A complicare le cose, parliamo di linee di divisione mobili e che si incrociano continuamente.

Esistono dunque l’Europa dell’Ovest e quella dell’Est, quella del Nord e quella del Sud, quella di matrice riformata e quella di retaggio cattolico-latino, quella che ha l’etica del lavoro e quella che si gode la vita. C’è l’Europa dei grandi (o dei pochissimi: come nel caso dello storico duopolio franco-tedesco) e quella dei piccoli, i quali hanno scoperto che unendo le forze possono finalmente contare. Esiste l’Europa che persegue la solidarietà continentale e quella che persiste nel coltivare gli egoismi nazionali, quella degli Stati nazionali e quella che vuole superarli, quella atlantista e quella “sovranista”, quella che tiene ai diritti universali e quella che difende il particolarismo culturale, l’Europa europeista e quella populista, l’Europa delle città e l’Europa delle campagne, quella che le élite vivono come il sogno di un mondo migliore e quella che i cittadini talvolta vivono come un potere troppo invasivo, l’Europa dei tecnocrati e l’Europa dei politici, quella che per ambizione vorrebbe contare di più negli affari mondiali e quella che per mancanza di volontà non riesce a farsi sentire sulla scena internazionale.

Difficile districarsi tra così tante immagini o idee d’Europa. Difficile soprattutto capire, anche alla luce di quel che sta accadendo al Consiglio europeo, quale di esse potrà risultare vincente (o perdente) nel prossimo futuro: se da questa crisi – come alcuni auspicano – potrà nascere un nuovo spirito comunitario o se essa – come alcuni paventano – produrrà una crescente disunione.

Come si ricorderà, appena scoppiata l’emergenza sanitaria causata dal nuovo coronavirus i diversi Paesi si sono divisi e chiusi in sé stessi, nell’errata convinzione che ognuno potesse resistere da solo e coi suoi mezzi all’onda dei contagi: quell’atteggiamento, probabilmente frutto della sorpresa e dell’impreparazione mostrata da tutti i governi del mondo dinnanzi al diffondersi del virus, sembrò mettere la parola fine sul processo di integrazione iniziato nel 1957.
Ma ben presto, quando ci si è accorti che la pandemia aveva investito tutte le società europee, provocando ovunque i medesimi danni e problemi sul piano economico e sociale, è prevalsa la consapevolezza che per uscire dall’emergenza servissero strumenti d’intervento eccezionali e uno sforzo comune anch’esso inedito.

L’Europa litigiosa e impaurita, orfana recente della Gran Bretagna e priva dei grandi capi politici che in passato ne hanno segnato la storia, sempre più schiacciata nel gioco mondiale dalle superpotenze americana e cinese, in calo di legittimità agli occhi dell’opinione pubblica e spesso accusata di non fare abbastanza per i suoi cittadini, si è trovata all’improvviso d’accordo nel mettere a punto uno straordinario piano finanziario per la ripresa, tale anche per l’entità delle risorse programmate (1800 miliardi di euro). Quello che a lungo era stato un tabù – l’emissione di debito garantito da tutti i Paesi Ue – è diventato in poco tempo, sotto la spinta dell’urgenza, una potenzialità reale, che in prospettiva potrebbe incidere anche sul funzionamento istituzionale dell’Unione (anche se è difficile immaginare che dalla sola scelta di mutualizzare il debito, per quanto innovativa, possa un giorno nascere lo Stato sovrano europeo: un’autorità politica centrale, ammesso sia auspicabile, avrà sempre bisogno di una legittimazione popolare dal basso).

Ne è nato un negoziato inevitabilmente lungo e difficile, che ha fatto emergere distanze culturali e d’impostazione mentale, interessi economici che tra gli Stati (per quanto alleati) sono per definizione contrastanti, interessi politico-elettorali contingenti anch’essi differenti, personalismi e contrasti di personalità che fanno fisiologicamente parte del gioco politico, così come alleanze curiose e divergenze paradossali: da un lato, l’Italia governata da una maggioranza di centrosinistra si è trovata contro le socialdemocrazie del nord e come alleati l’Ungheria e la Polonia alfieri del populismo; dall’altro, la Germania ha finito per fare sponda con l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Francia (dunque col blocco latino) contro gli Stati “rigoristi” e protestanti che sono sempre stati suoi fedeli alleati ed esecutori. 

Un negoziato, quello in corso ormai da quattro giorni, che ha fatto capire come tra l’euroscetticismo miope e l’europeismo ortodosso (entrambi spesso al limite del fanatismo ideologico), l’atteggiamento da preferire, considerata anche la mancanza di una visione omogenea dell’Europa alla quale uniformarsi, dovrebbe essere quello che con una formula può chiamarsi “eurorealismo”: l’Europa reale e concretamente possibile, tenuto conto dei rapporti di forza in essa esistenti e della sua complessa storia, del pluralismo politico-culturale che ne rappresenta l’essenza e per molti versi anche la forza, invece di quella troppo immaginaria e astratta che, nel bene e nel male, disegnano i suoi fautori entusiasti e i suoi detrattori incalliti: sognatori spesso ingenui i primi, critici ingenerosi e fuori dalla storia i secondi.

Ciò significa – per venire alle contrattazioni di questi giorni cui stiamo assistendo alla stregua di uno psicodramma collettivo, mentre in realtà è solo un normale anche se obiettivamente complicato passaggio politico – che nelle trattative diplomatiche e nei negoziati internazionali si chiede il massimo per ottenere il possibile, si minaccia di rompere con l’obiettivo paradossale di favorire l’accordo, si stringono alleanze per rafforzare la propria posizione sapendo che gli altri fanno lo stesso, si punta a stancare gli interlocutori o a contestarne le richieste facendo leva sui loro punti deboli. Sono le normali regole del gioco, alla fine del quale non vince il più prepotente o il più forte, ma il più abile, il più convincente e, soprattutto, chi nel negoziato è entrato con degli obiettivi chiari e con una strategia coerente. 

Certo, questa volta la posta in gioco è particolarmente alta (e per molti versi inedita). Ma proprio per questo un fallimento delle trattative è da escludere. A quanto pare, potrebbero cambiare, rispetto alle proposte iniziali, l’entità globale del pacchetto anticrisi e la quota dei trasferimenti a fondo perduto rispetto ai prestiti da restituire. Così come ci sarà da mediare sino all’ultimo sulle condizionalità e sui meccanismi di controllo che tanto preoccupano l’Italia ma a proposito delle quali – per realismo e serietà – una cosa va detta: il nostro Paese si è seduto al tavolo con gli alleati europei senza un piano contenente le riforme e gli interventi strutturali che intende realizzare, insistendo per avere miliardi a fondo perduto da spendere senza troppi controlli dall’esterno. Ahimé, nel mondo politico reale, dove nessuno regala niente, non funziona così. Soprattutto c’è una cosa che si chiama “credibilità” che noi italiani abbiamo dilapidato nei decenni e ora ne paghiamo il prezzo, sperando che alla fine di questo tour de force diplomatico (che è e resterà il modo d’operare tipico dell’Europa) esso non si riveli troppo alto. 


 
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