Izzo, «il mostro del Circeo»
e la sua paura delle donne

di Titti Marrone
Sabato 26 Maggio 2018, 22:22
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Non è chiaro se Angelo Izzo, autore nel 1975 del massacro del Circeo con gli altri due studenti pariolini Gianni Guido e Andrea Ghira, abbia mentito o meno ai magistrati. Fatto sta che ha ammesso un ulteriore stupro omicida compiuto con altri nove su Rossella Corazzin, diciassettenne pordenonese sparita il 21 agosto 1975. Forse è solo una millanteria. Forse la sua frase «scegliemmo lei perché era vergine» è l’ennesima beffarda sfida di un delirante provocatore, convinto di non aver più nulla da perdere. I pm non hanno creduto a quest’uomo incline a vantarsi di simili atti e per giunta già condannato a scontare due ergastoli, per aver ucciso nel 2005 una madre e sua figlia a Ferrazzano. Né alla Procura di Perugia hanno trovato elementi utili a far proseguire l’indagine, archiviandola. La Procura di Belluno, invece, che già aveva aperto un nuovo fascicolo sulla scomparsa di Rossella, ha sollecitato i colleghi umbri ad andare a fondo, trasmettendo loro nuove carte. 
È come se, quarantatré anni dopo, tornasse come un incubo ricorrente uno dei peggiori fatti di cronaca degli anni Settanta. Chi lo ricorda ha certo ancora negli occhi quella terribile foto in bianco e nero dove una ragazza, Donatella Colasanti, emerge dal portabagagli di un’auto, seminuda e sporca di sangue da capo a piedi, mentre alle sue spalle s’intravede il cadavere della sua amica Rosaria Lopez avvolto in un sacco di plastica. Stuprate con cric e posacenere da tre ragazzi, si disse allora, “della Roma bene”, in una notte al Circeo in cui la Colasanti si salvò fingendosi morta.
Speriamo che stavolta si vada davvero a fondo. Già una volta Izzo ha ingannato tutti, e fu quando, nel 2004, ottenne la semilibertà potendo uscire dal carcere dove scontava la condanna per l’omicidio Lopez. Dopo essersi conquistato la fiducia di Carmela Limuccia e Valentina Maiorano, moglie e figlia di un boss conosciuto in carcere, nel 2005 le violentò e le uccise seppellendole in una villetta in provincia di Campobasso. La ratio veniva spiegata in un manoscritto autobiografico vergato in carcere e significativamente intitolato The mob, nel capitolo «Stupro e torturo, io vivo così».
Non sappiamo che cosa uscirà dalle nuove indagini, però sappiamo che l’uomo con gli occhi folli, che prima del Circeo aveva già violentato due donne, è tornato, riempie di nuovo le pagine dei giornali - forse raggiungendo così proprio l’effetto desiderato - e ci induce a guardarci dentro e a guardar dietro nel tempo. Quarantatré anni fa non esisteva il termine “femminicidio” né i giornali davano molto spazio alle uccisioni di donne per mano di uomini. Del massacro del Circeo, però, si parlò, eccome. In Italia fu il primo atto di una narrazione pubblica della guerra mondiale a bassa intensità, la sola che non ha mai conosciuto tregua, combattuta sul corpo delle donne. Sotto i riflettori dei media di allora, a ben vedere, le vittime risultarono del tutto prive di appeal e lasciarono totalmente la scena agli assassini. Così a giganteggiare furono i tre “ragazzi della Roma bene”, allievi del cattolicissimo istituto San Leone Magno. Per giorni, settimane e mesi si scrisse di loro, della fuga di due di essi a Buenos Aires, delle loro famiglie. Gianni Guido, proprietario dell’auto e della villa al Circeo, subito preso, confessò e indicò gli altri responsabili: nove anni fa ha finito di scontare la pena nonostante una fuga in Argentina, ed è tornato in libertà grazie a un indulto. Il terzo, Andrea Ghira, scappò e non è stato mai trovato.
La trattazione giornalistica di quel massacro fu però anche utile a svelare il cuore di tenebra dell’educazione borghese, il suo conformismo, le sue ipocrisie. Ma una narrazione assai più ricca, complessa e illuminante dei moventi di quegli atti è venuta da Edoardo Albinati che vi ha dedicato le 1294 pagine del romanzo La scuola cattolica. E forse solo la letteratura può arrivare dove la razionalità non è in grado di articolare spiegazioni: alla deformazione che porta a vedere la femminilità come un’infezione, al «dividersi una ragazza tra amici come un contatto erotico omosessuale realizzato attraverso un corpo terzo».
Nello stesso anno del massacro del Circeo, il 1975, ci fu la riforma del nuovo diritto di famiglia, l’anno prima il referendum vittorioso sul divorzio. Ha ragione Albinati a paragonarli all’abolizione della servitù della gleba. Proprio da lì, e dalla denuncia dell’oppressione femminile, ha preso forza quello che si può considerare il principale discorso politico del Novecento. È anche il più facile da colpire e da smontare, perfino con le deliranti provocazioni di un uomo dagli occhi folli in cui lampeggia la paura per l’indipendenza rivendicata dalle donne che fa paura a tanti.
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