De Luca: l’indagine doverosa, il reato che non c’è e la solita gogna

di Massimo Adinolfi
Lunedì 7 Settembre 2020, 23:30 - Ultimo agg. 8 Settembre, 07:01
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Non è neppure una previsione: finirà in nulla, e il verbo al futuro è soprattutto un modo per rispettare la grammatica italiana.

Anche l’indagine di cui si è appreso ieri, a proposito di Vincenzo De Luca, finirà in una bolla di sapone. Il presidente della Regione è indagato perché avrebbe fatto trasferire a palazzo Santa Lucia quattro vigili-autisti, inserendoli come membri dello staff relazioni istituzionali, pur essendo essi privi di un curriculum adeguato. Ma anche senza sfera di cristallo si può fin d’ora escludere che da una simile vicenda venga giù il mondo. La notizia, infatti, non è che De Luca è indagato, ma che si vuol trovare il tempo e il modo di dare notizia dell’indagine, dilatandola abbastanza perché stia sui giornali prima dell’archiviazione, giusto a ridosso delle elezioni regionali. 

Il primo pensiero che viene da fare è allora il seguente: qualunque organo di stampa avrebbe dato la fragorosa notizia di un’indagine a carico del presidente della Regione Campania in qualunque momento ne fosse entrato in possesso, oggi come ieri come fra tre settimane. Ma se è in vista un’archiviazione, e l’esito delle indagini in corso appare, in sostanza, già scritto, far trapelare la notizia può significare una cosa sola: far fruttare le indagini almeno sul piano mediatico, non essendo in grado di ottenere molto su quello giudiziario.

È un argomento infondato? Gli anni che separano l’avvio delle indagini dalla notizia di stampa, nonché il frangente in cui questa appare, non sono sufficienti a pensar male? D’accordo. Siamo disponibili a ritirare il malizioso ragionamento, e a considerare del tutto accidentale la diffusione della notizia nel bel mezzo di una campagna elettorale. Ma non siamo disponibili a non chiedere, ancora una volta, una riflessione più ampia e profonda su questo perverso circuito, per cui le indagini producono i loro effetti non nei luoghi deputati, nei tribunali e nelle aule di giustizia, ma sugli organi di stampa; per cui l’opinione pubblica celebra i suoi processi e infligge le sue pene prima e indipendentemente dagli accertamenti processuali; per cui la materia che filtra dalle procure diviene inevitabilmente terreno di scontro politico.

In questione non è Vincenzo De Luca, e neppure l’indagine in oggetto, insomma, ma un profondo malcostume. E sono sicuro che anche il candidato del centrodestra, Stefano Caldoro, la pensi allo stesso modo (sui Cinque Stelle e Valeria Ciarambino non giurerei, invece). Però Caldoro potrebbe fare di più di quanto ha fatto, rendendo un giudizio politico «a prescindere dall’indagine». Potrebbe dire che questo malcostume deve finire, e contribuire a farlo finire lasciando perdere anche i commenti a prescindere. Sarebbe importante che desse il suo giudizio non su De Luca, perché questo lo può fare sempre e giustamente lo fa in tutte le occasioni in cui è chiamato a parlare, non solo nel corso di questa campagna, ma sull’andazzo per cui, ancora una volta, le indagini vengono gettate in mezzo ai piedi dei candidati grazie all’eco suscitato sui giornali, a prescindere (qui davvero ci vuole) dagli esiti processuali. La notizia da commentare è solo questa. Perché non ci sono rinvii a giudizio, processi, prove a carico, sentenze, motivazioni. C’è anzi il sentore che l’archiviazione sia dietro l’angolo. Non resta allora che far esplodere un bel fuoco d’artificio e fare un po’ di fumo prima che al fascicolo si bagnino le polveri.

Conviene ripeterlo, a scanso di equivoci. Nessuno sostiene che non si dovessero compiere gli accertamenti del caso, ed è anche giusto ricordare l’impegno della Procura napoletana a contenere «l’ingiustificata diffusione di notizie ed immagini» a seguito di indagini in corso. Evidentemente, però, non basta un ordine di servizio: quando una scadenza elettorale si avvicina, l’occasione si fa ghiotta e qualcuno, dalle parti degli uffici giudiziari, non riesce a contenere la propria golosità.

A questo piatto di prelibatezze (si fa per dire) ne aggiungo un’altra. Con la nuova disciplina relativa ai trojan, appena entrata in vigore, ci vuol poco: basta finire nella rete di una di quelle pesche a strascico che il controllo anche di un singolo dispositivo si tira dietro, per fare l’esperienza del fango nel ventilatore, e finire sui giornali senza alcuna garanzia di rispetto della propria vita, pubblica e privata. Ma la cosa non sembra suscitare allarme quanto uno qualsiasi dei dpcm emanati dal governo in questi mesi: evidentemente, a dettar legge è un’altra pandemia, quella del populismo giustizialista, contro cui possono davvero poco le professioni individuali di garantismo. (E al voto, si badi bene, mancano ancora due settimane).
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