Lega di lotta e di governo ma con Draghi sarà dura

di Alessandro Campi
Mercoledì 24 Febbraio 2021, 23:52 - Ultimo agg. 25 Febbraio, 07:55
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La doppia anima della Lega – di lotta e di governo, movimentista e pragmatica, ora forza ribelle e quasi eversiva, ora forza responsabile e incline ai compromessi – è cosa antica. Ha sempre caratterizzato la sua leadership – dal fondatore Umberto Bossi al successore Matteo Salvini. Ed è stata una delle ragioni della sua tenuta nel tempo e delle sue (in realtà alterne) fortune elettorali.


Bossi era capace un giorno di chiamare alla rivolta contro lo Stato romano centralista imbracciando le doppiette da caccia e il giorno appresso di mettersi intorno ad un tavolo con Berluskaiser (da lui detto anche il “mafioso di Arcore”) e il “fascista” Fini per parlare di poltrone ministeriali e nomine pubbliche. A cascata erano e sono rimasti così anche i suoi tantissimi amministratori locali: un giorno li senti parlare, con passione e competenza, dei problemi che affliggono agricoltori, artigiani e piccole imprese e un altro li senti dare di matto contro gli immigrati, inveire contro i ladroni del Sud che depredano il Nord o inventarsi crociate contro gli infedeli. 


Salvini, dacché ha preso le redini del partito nel 2013, ha progressivamente portato questo sdoppiamento all’acme, facendone una tecnica politica: grossolana nell’esecuzione, efficace nel risultato. Da un lato la protesta, la propaganda sovente becera, gli slogan urlati, il martellamento ossessivo sui social.


Dall’altro, la capacità manovriera, il tatticismo, la gestione accorta della propria rete di alleanze nella società e nelle istituzioni, la disponibilità a trattare con alleati e avversari, il realismo anche un po’ cinico che in realtà contraddistingue tutte le forze politiche.


L’apoteosi di questa strategia è stata certamente l’anno in cui Salvini (spiazzando i suoi elettori e storici alleati di centrodestra) decise di fare un governo col M5S nel nome di un cambiamento che ovviamente poi non c’è stato. 


Fu, rivista oggi, una stagione pazza: da ministro degli interni Salvini percorse l’Italia in lungo e largo, tra bagni di folle e autoscatti in tutte le pose, e nel frattempo postava, twittava, inveiva contro l’Europa, annunciava la chiusura di porti e frontiere, ammiccava a Putin, proclamava ordine e disciplina, prometteva sicurezza attraverso l’autodifesa armata dei cittadini, faceva il verso a Trump, snocciolava il rosario contro la minaccia islamica e invocava la protezione della Madonna sull’Italia come non si sentiva dai tempi di padre Lombardi. Era al governo, ma sembrava in campagna elettorale. Fu così, lottando nelle piazze mentre governava nel palazzo, che si mangiò nei consensi i suoi nuovi e vecchi alleati, sino ad ottenere alle Europee del maggio 2019 una percentuale di voti strabiliante (il 34,26%).


Poi cadde il governo, ne nacque uno giallo-rosso sempre guidato da Giuseppe Conte e la Lega si ritrovò a essere forza d’opposizione in calo costante di consensi, con Salvini che, anche a causa della pandemia, perse i suoi storici cavalli di battaglia: le tasse, gli immigrati, le pensioni, la sicurezza.

A minacciare gli italiani e a far loro paura (stavolta sul serio) non erano più i clandestini o gli spacciatori, bensì un virus.


Ma la fortuna di questi tempi gira veloce. E la politica, che in molta parte ne dipende, subisce anch’essa brusche accelerazioni, modificando scenari e carriere. Per le ragioni che tutti ormai conoscono, alla fine di un lungo stallo parlamentare a palazzo Chigi è arrivato Mario Draghi, sostenuto da una vasta coalizione di cui anche la Lega – un po’ a sorpresa – ha scelto di fare parte. 
Ecco Salvini che mette finalmente (anche se un po’ opportunisticamente) la testa a posto – si è detto: fa pace con l’Europa, smette i panni del populista, sceglie la moderazione verbale, per responsabilità nazionale decide di occuparsi coi suoi ministri di economia e sviluppo. 


Chissà, forse un giorno, così continuando, entrerà a far parte della famiglia popolare europea, il che non sarebbe nemmeno una gran bestemmia.
Ma vuoi il doversi guardare a destra dalla concorrenza della Meloni unica oppositrice reale dell’esecutivo Draghi, vuoi che la natura degli uomini non si cambia facilmente, fatto è che nato da poco il governo Salvini già sembra comportarsi come se ne fosse all’opposizione, criticandolo e pungolandolo, sfruttando anche il fatto che stavolta non ha incarichi diretti e dunque sente le mani più libere. 


Sulla carta sembrerebbe per la Lega una divisione dei compiti perfetta, sulla quale lucrare elettoralmente anche stavolta: Salvini, il movimentista, alza la posta (sulla campagna vaccinale, su Arcuri da mandare a casa, sulle tasse da abbassare, sui ristori, sulle riaperture dei ristoranti), dà voce alla protesta e al malumore, mentre a Roma Giorgetti, il leghista pragmatico, media, smussa, tratta, ammorbidisce, gestisce rapporti, discute e fa il suo mestiere di ministro insieme agli altri due rappresentanti del partito.


Ma stavolta – ecco il punto – il gioco delle parti potrebbe non funzionare. Draghi difficilmente potrà tollerare ambiguità o doppiezze da parte di chi lo sostiene: o dentro o fuori. L’Italia di oggi non è quella di due anni fa, disposta ad applaudire un ministro degli interni che andava in spiaggia a ballare e bere. Gli italiani sono stanchi e più inclini ad apprezzare la linearità (e serietà) dei comportamenti. La scelta di stare al governo che la Lega ha fatto implica, per come è ridotto il Paese, una responsabilità tripla rispetto alle intese e alleanze strette nel recente passato. E a Salvini, ottenuto quel che voleva ottenere nella partita per i sottosegretari, non resterà altra scelta che prenderne atto.
 

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