Se scoppia Napoli rischia l'Italia

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 21 Novembre 2021, 00:00 - Ultimo agg. 22 Novembre, 20:34
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Nell’importante intervista rilasciata a questo giornale, Edoardo Cosenza lo ha detto con non comune e apprezzabile chiarezza. Gaetano Manfredi non è al suo posto per fare il ragioniere liquidatore di un fallimento e se il Comune fosse messo in condizione di dichiarare il dissesto, il primo cittadino si dimetterà e con lui la sua giunta. Per avere una misura quanto più prossima è possibile alle dimensioni che assumerebbe l’avvio della procedura di dissesto del Comune di Napoli, qualora il governo si dimostrasse incapace di intervenire concretamente a sostegno della città, bisogna uscire dal perimetro dell’amministrazione e guardare al vasto spazio sociale che si organizza intorno a Palazzo San Giacomo. In gioco infatti non è il destino del nuovo sindaco e della maggioranza politica che lo sostiene. In gioco è la tenuta di una fitta rete di rapporti di natura economico-produttiva che permette concretamente all’amministrazione di operare e alla città di funzionare. 

Una intelaiatura fatta di imprese, società di servizi, fornitori, che nel corso degli anni hanno dato il proprio lavoro al comune di Napoli nella forma di merci, servizi per l’appunto, e prestazioni d’opera da cui dipende essenzialmente il soddisfacimento degli infiniti bisogni di cui si compone l’esistenza quotidiana di una comunità, e che oggi è appesa al filo dell’incertezza. Anzi, per dirla tutta, è messa dinanzi all’alternativa secca di vedere finalmente remunerato il lavoro prodotto da tanti oppure di entrare nel percorso lungo ed estenuante del creditore di un fallimento. Una eventualità in cui i rischi si amplificano e la possibilità di vedere soddisfatto il proprio legittimo interesse è fin dall’inizio pregiudicata dalla certezza di una liquidazione molto parziale delle spettanze.

Stiamo parlando di centinaia e centinaia di imprese che rischiano, se mai verranno pagate, di ottenere meno di un terzo di ciò che è loro dovuto. Questo genera tutta una serie di effetti che non è esagerato definire di portata sistemica. Innanzitutto, il rischio concreto, molto concreto, di fallimenti a catena nel campo delle società creditrici con un enorme appesantimento della già compromessa condizione occupazionale in città e dintorni. 

A Napoli, l’amministrazione pubblica è un elemento portante della struttura sociale sia come datore diretto di lavoro, sia come committente. Se viene meno la sua capacità di rimborsare i molti fornitori che ruotano attorno al suo funzionamento, viene meno la possibilità di questi stessi fornitori di accedere al credito e finanziare così le propria attività. In una città storicamente povera di lavoro e con un sistema produttivo ridotto ai minimi termini, il crollo dell’impalcatura comunale avrebbe effetti giganteschi. 

Non è retorico, in queste condizioni, parlare di bomba sociale.

Ma c’è poi un’altra questione. Chi affida e chi si affida ad un ente insolvente? Non è solo questione del debito storico. Il problema di un’amministrazione cittadina, fin troppo ovvio (ma giova ricordare l’ovvio) e far andare la macchina urbana ogni santo giorno, dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina.

Questo significa poter far conto su imprese e aziende per ogni evenienza che travalichi le ridottissime capacità di intervento diretto del Comune. La manutenzione dell’infrastruttura urbana, strade, gallerie, reti, è tale che può solo essere assicurata da imprese private che devono essere pagate per il proprio lavoro. E chi è disposto in queste condizioni a lavorare per un pagatore che si sa già non pagherà o se pagherà lo farà con un ritardo insostenibile? Si generano così due effetti potenzialmente distruttivi, la bomba di cui si diceva prima: una crisi sociale di natura economica (insolvenza e fallimenti) e una crisi sociale dovuta a paralisi della macchina amministrativa con conseguenze decisive sul quotidiano di centinaia di migliaia di cittadini. 

La questione del debito napoletano, per chi considera le cose con una mente più ampia dell’angusta misura dei custodi dei conti, è meno una questione di bilancio che un fatto squisitamente politico. E anche in questo caso, politico non vuol dire il destino di Manfredi, dell’alleanza tra il Pd e il Movimento cinque stelle, o tutte le cose che interessano il dibattito da talk show. Qui politico è innanzitutto l’attributo della questione napoletana come questione nazionale. Messa all’angolo per troppo tempo, vittima e al tempo stesso artefice del proprio degrado, resta il fatto di una città che sta al cuore stesso della transizione italiana del post-pandemia e rispetto alla quale il Paese tutto deve prendere una buona volta una decisione.

Può l’Italia immaginare il proprio futuro senza Napoli e senza un pezzo consistente di Mezzogiorno che ai destini di Napoli, volente o nolente, ha legato la propria vicenda? Perché se la risposta è no, come è inevitabile che sia se vogliamo continuare ad essere una nazione nel vero senso della parola e non una provincia economica dell’Europa continentale, ebbene è finito il tempo delle sciocchezze ragionieristiche e dei virtuosismi da buoni e oculati borghesucci piccolo settentrionali o basso bavaresi che dir si voglia. 

Napoli ha bisogno di una politica italiana per il Sud e il sostegno finanziario per evitare il dissesto è il primo passo concreto. La condizione preliminare, necessaria anche se non sufficiente, per qualsiasi discorso a venire. Il resto sono chiacchiere incautamente pronunciate per altro ai bordi di una polveriera.
 

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