Se Napoli non sa più indignarsi

di Gerardo Ausiello
Lunedì 5 Ottobre 2020, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Napoli sta vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia recente. Il weekend appena trascorso condensa in sé nuove e vecchie contraddizioni che si stanno saldando dando vita ad una miscela esplosiva. L’impennata di casi di Coronavirus, con i momenti drammatici vissuti all’ospedale Cotugno.

Qui le ambulanze con a bordo pazienti Covid sono rimaste in fila per ore perché non c’erano posti letto liberi; l’assalto di due giovanissimi rapinatori, uno dei quali figlio del tristemente noto Genny “la carogna”, conclusosi con l’uccisione di uno dei due dopo il conflitto a fuoco con la polizia; il centro della città paralizzato da un piano traffico d’emergenza (che non funziona) dopo la chiusura forzata della Galleria Vittoria che cade a pezzi e le auto che tornano sul lungomare (non più) pedonale, unico segno tangibile prodotto dall’amministrazione de Magistris in quasi dieci anni trascorsi a rincorrere emergenze mai superate. Napoli è una città senza governo. Ciò che appare chiaro a chi cammina per le sue strade e respira la sua aria, è reso ancor più evidente da alcuni aspetti paradigmatici: ad ogni allerta meteo si chiudono scuole, cimiteri e parchi, mentre i sindaci di città limitrofe li lasciano regolarmente aperti; non è un eccesso di zelo del sindaco e della sua giunta ma la consapevolezza che anche una folata di vento può essere fatale in un tessuto urbano dove da troppo tempo non si effettua alcun intervento significativo di manutenzione e dove infatti si contano vittime colpite da pali della luce, alberi, calcinacci caduti. Si è altresì rinunciato a qualsiasi intervento strategico, di riqualificazione di pezzi di città ex industriali o di recupero di periferie che sono sempre più corpi a sé stanti, lontani geograficamente e amministrativamente dal centro. Si procede a tentoni, nel tentativo ormai vano di camuffare il disastro con una narrazione di una città che non esiste e dove persino la banale gestione dell’ordinario è divenuta una dolorosa rinuncia (si guardi allo stato dei parchi, dalla Villa Comunale al Virgiliano fino alla Floridiana). Chi utilizza il trasporto pubblico assapora più di altri questa amara sensazione: l’incertezza di uscire di casa per raggiungere la metropolitana o la funicolare e non sapere se la si troverà aperta e regolarmente funzionante; la frustrazione delle indefinite attese alla fermata dell’autobus; la rabbia di dover ricorrere all’auto privata, per chi la possiede, e confrontarsi con ingorghi e rallentamenti dovuti a cantieri decennali o a isole pedonali improvvisate nonché con l’arroganza dei parcheggiatori abusivi da cui l’ex pm de Magistris aveva promesso di liberarci.
 
Per i napoletani è un’ennesima ferita quello che è accaduto ieri mattina, quando due giovanissimi rapinatori, uno dei due minorenne e l’altro appena maggiorenne, hanno bloccato un’auto minacciando con la loro pistola (giocattolo, ma si è scoperto solo dopo) le tre persone a bordo. Ancora una volta si parlerà di Napoli per giorni nelle televisioni e sui quotidiani nazionali per l’ennesimo episodio di violenza urbana. C’è poco da sentirsi orgogliosi riflettendo sul fatto che qui forse più che altrove la catena criminale non si spezza, ma si tramanda di padre in figlio, come da Genny “la carogna” al giovane rampollo che segue le orme del papà nel mondo criminale. Eppure, nonostante quello che accade, Napoli non si indigna più e ha perso da tempo la voglia e la capacità di farlo. L’indignazione è un’arma potente, che può suscitare iniziative pacifiche di protesta, mobilitazioni delle coscienze che mettono pressione alla politica e alle istituzioni costringendole a trovare soluzioni. È un sentimento che fa parte del dna di parigini o newyorkesi ma non più del popolo napoletano, che ha ormai soppiantato l’indignazione con una malsana tolleranza che non è senso civico bensì rassegnazione.

L’emergenza Covid ha accentuato questi limiti. Fino a qualche mese fa Napoli sembrava aver trovato, un po’ per caso, una diversa identità, riscoprendo la naturale vocazione turistica che dovrebbe essere il motore di un nuovo sviluppo. Qualcosa si stava muovendo, sempre con approssimazione, senza una visione e lasciando molto alle iniziative dei singoli, ma era abbastanza per alimentare almeno una speranza di cambiamento. Il Covid l’ha spazzata via, bruciando quel poco di richezza prodotta e rigettando la città in una crisi, economica e sociale, che deve ancora dispiegarsi nella sua drammaticità. E, in ultimo, il Covid ci ha tolto un altro tratto distintivo: l’empatia, la naturale tendenza alla socialità e all’accoglienza che, al di là dei luoghi comuni, caratterizza i napoletani. I dispositivi di protezione individuale come guanti e mascherine, il distanziamento sociale, il divieto di assembramenti ci impongono di rinunciare, per la sicurezza di tutti, a manifestazioni di affetto e di calore che ci fanno sentire bene. È un momento delicato. E, com’è accaduto altre volte in passato, Napoli e i suoi cittadini dovranno trovare la forza di rialzarsi.
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