Se cresce l'assuefazione ​di Napoli al crimine

di Titti Marrone
Venerdì 14 Maggio 2021, 00:00
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C’è una sola cosa a non essere cambiata nella vita della città da quando abbiamo imboccato il dannato tunnel del Covid. È l’attività criminale, estranea a lockdown, coprifuoco, tregue e probabilmente intenta a scaldarsi i muscoli per portare il suo assalto alla quota di Recovery fund destinata al Sud. All’ininterrotto dilagare della violenza dei clan si fa meno caso, anche per via di una comunicazione fissata sulla narrazione prevalente della pandemia. Ma l’elenco delle violenze dispiegate tra Napoli e la provincia in pochi giorni compone il quadro allarmante di tre distinte faide in atto in aree diverse della città, come serpi maligne intente a strisciare da Ponticelli a Fuorigrotta ai Colli Aminei, pronte a stringerla nel cappio unico delle loro spire.

Le cronache di questo giornale hanno raccontato per due giorni di seguito di bombe lanciate a Ponticelli nel cuore della roccaforte dei De Martino, presumibilmente dagli affiliati di un clan rivale. Oggi il nostro Leandro Del Gaudio ricostruisce la tela di altri episodi criminali verificatisi in allarmante successione non solo in zone della periferia ma anche nel bel mezzo di quartieri cittadini densamente popolati e di insediamento residenziale interclassista, come Fuorigrotta e i Colli Aminei. La prima triste constatazione è che non c’è nulla di nuovo: perfino i nomi dei clan sono gli stessi che da decenni spadroneggiano su un territorio fuori controllo. La seconda è che la criminalità organizzata appare ormai così connaturata alla vita delle nostre aree da essere entrata in una specie di routine non tanto dell’informazione, che si affanna a inseguirne le performance e non rinuncia a denunciarle, ma della percezione stessa del reale. C’è come un’indifferenza diffusa ai fatti criminali, un’assuefazione che induce a voltare lo sguardo altrove, per non guardare e non sentire il deflagrare di un’illegalità progressiva ormai subìta come un corollario inevitabile del nostro essere napoletani.

Ed è un’indifferenza perniciosa, facilmente transitabile in omertà, quindi in complicità etica del crimine.

Su un simile rischio dovremmo interrogarci tutti, aprire una discussione vera e articolata: sono scorsi fiumi d’inchiostro per dibattere sul ruolo delle crime fiction televisive e sulla loro influenza vera o presunta sui comportamenti soprattutto giovanili, ma poco o niente si parla di come e perché, e a partire da quando, ci si sia abituati al dilagare di omicidi, “stese”, agguati, riscossioni di pizzo e manifestazioni varie di sopraffazione e illegalità. Come se fosse parte determinante del paesaggio urbano, la violenza è diventata un’icona fissa, cangiante solo in virtù delle disparate forme che assume, ma insediata stabilmente nel vivere quotidiano. Tant’è che nemmeno ci s’indigna più, e a prevalere è una passiva rassegnazione generalizzata. Un bel docu-film di qualche anno fa intitolato semplicemente «Camorra» e realizzato da Francesco Patierno unicamente con materiali tratti dalle Teche Rai dava bene l’idea: si vedono scorrere le immagini di una trentina d’anni, dai Sessanta agli Ottanta, cioè dal contrabbando delle sigarette al dominio di Cutolo e alla faida successiva. Le musiche di Meg dei 99 Posse e la voce dell’io narrante, saldate a immagini di cronaca, raggiungono l’effetto potentissimo di un’indagine storico-antropologica capace di raffigurare non solo il crimine ma anche il contorno indifferente del territorio e dei suoi abitanti. Ed è chiaro come Napoli sembri essere nel tempo, e soprattutto oggi, tutt’altro che una “città ribelle” o rivoluzionaria, ma al contrario assuefatta, rassegnata, chiusa nella cultura omertosa e complice che da decenni è il suo vero virus mortale.

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