Napoli e il lato
borghese della camorra

di Isaia Sales
Mercoledì 13 Giugno 2018, 22:42
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Il fenomeno criminale che per comodità definiamo camorra rappresenta tra le mafie italiane quello a maggiore ebollizione, a più alta esplosività e a più difficile interpretazione, caratterizzato da un andamento magmatico e dal farsi e disfarsi permanente di nuovi equilibri tra i clan. Per numero di morti ammazzati negli ultimi 40 anni i clan di camorra detengono il primato tra le organizzazioni mafiose italiane. Da 15 anni la media annuale di omicidi è superiore in termini assoluti a quelli di cosa nostra e ‘ndrangheta. In Campania, a Napoli città, le armi non hanno mai taciuto, mentre per alcuni anni si è sfiorato il numero zero degli omicidi in Sicilia e in Calabria. Rispetto a questo quadro caratterizzato solo dalla contabilità dei delitti, una novità sembra essere intervenuta negli ultimi tempi: l’abbattimento del confine, del «limes» tra la Napoli criminale e la Napoli delle professioni e delle attività economiche legali.  
Ne sono stati la spia più macroscopica alcuni episodi avvenuti nelle settimane scorse, in particolare le frequentazioni amicali tra alcuni giocatori del Napoli e i rappresentanti di un clan, e la scoperta che due medici di vasta clientela (operanti in due delle cliniche più famose della città), secondo l’inchiesta della procura, si sarebbero prestati a riciclare capitali della camorra nel circuito della ristorazione del Lungomare. E nei mesi scorsi avevamo avuto notizie di appalti e concessioni a camorristi negli ospedali della città.
Per mesi si è parlato di stese, di paranza dei bimbi, dell’humus sottoproletario dei clan, dell’assenza di lucide strategie che andassero oltre il proprio recinto di classe, e ci troviamo proiettati in uno scenario del tutto nuovo. Non è che prima mancassero intrecci con il mondo «altro» dai criminali, ma queste relazioni sembravano essere sporadiche e non strutturali; non è che prima i due mondi non si incontrassero fisicamente ed economicamente, ma sembravano incursioni piuttosto che stabili interconnessioni. E, invece, oggi ci si squaterna davanti uno scenario tutto da decifrare.
Nel passato il successo delle bande di camorra di Napoli città non sembrava tanto dovuta alle loro capacità di entrare in relazioni stabili con parte delle classi dirigenti della città, con i circuiti economici legali, con una parte della borghesia delle professioni come era avvenuto per la mafia siciliana e calabrese e con i clan casalesi. Le cose oggi sembrano in parte cambiate. O, almeno, stanno cambiando velocemente. E dalle caratteristiche di questi cambiamenti dipenderanno sicuramente gli assetti futuri del rapporto tra Napoli e la sua faccia criminale. Insomma, la camorra si conferma così una modalità criminale multiforme e complessa, difficile da inquadrare in una definizione unitaria e definitiva.
È un tema delicatissimo quello della cosiddetta «zona grigia» su cui in questi mesi il procuratore capo di Napoli, Gianni Melillo, ha costantemente richiamato l’attenzione. In ogni caso, comincia ad essere abbastanza evidente che due mondi apparentemente lontani, geograficamente e socialmente distanti e distinti, si stanno avvicinando e siamo tutti obbligati a cercare di capirne le ragioni.
Se guardiamo la questione dal punto di vista degli interessi criminali, sono abbastanza chiare le ragioni. Quando si raggiungono sui mercati illegali livelli alti di profitti, non si può fare a meno di rivolgersi alla parte legale dell’economia e delle libere professioni per reinvestirli, mimetizzarli e tutelarli dall’attacco delle leggi in materia di confisca dei beni mafiosi. In questo momento storico i clan di camorra hanno accumulato risorse ingentissime grazie al ruolo centrale che svolgono nel traffico internazionale, nazionale e locale degli stupefacenti. Si tratta di un giro di affari di centinaia e centinaia di milioni di euro e un numero estesissimo di persone coinvolte. In questo giro criminale c’è il milionario, il benestante e chi vive di un’entrata stabile; nessuno a Napoli, tra chi è all’interno del circuito criminale, se la passa male dal punto di vista economico. All’interno di questo mondo notevolissima è la disponibilità di soldi. Alcuni trafficanti hanno superato ampiamente il reddito degli imprenditori e dei professionisti più ricchi della città. Dove si riversano queste risorse? In parte nel comprare tutto ciò che occorre al proseguimento delle attività illegali e a sostenere la «ditta» ( droga e armi innanzitutto), una parte per pagare stipendi agli affiliati, ai collaboratori e per sostenere le famiglie di coloro che sono finiti in galera o sono stati ammazzati; ne resta ancora una quota elevatissima pronta a riversarsi nei circuiti legali alla ricerca di buoni affari. 
Spesso si parla a sproposito del fiuto imprenditoriale dei camorristi, della loro capacità di valutare le nuove opportunità e di fiondarsi su di esse, cioè delle straordinarie capacità soggettive dei capi clan. La questione è più complessa di come appare. L’impressione netta è che la crescita dell’imprenditoria camorristica non sembra essere ostacolata dall’economia legale. Perché nella dimensione imprenditoriale non esiste un confine sicuro, certo e invalicabile tra attività legali e quelle illegali. L’economia legale non scaccia automaticamente l’economia illegale e criminale, tra le due non c’è totale incompatibilità, l’una non contrasta l’altra, anzi la convivenza e un loro reciproco adattamento sembrano prevalere.
Domanda: sarebbe stato possibile un ruolo espansivo della camorra nell’economia della città senza la presenza di un campo così esteso di economia illegale «non criminale» o di una competizione imprenditoriale basata anche sull’aggiramento delle leggi? Certo, ci sono imprenditori, commercianti e professionisti che non riescono a sottrarsi a queste relazioni per paura. Ma è altrettanto vero che spesso sono gli imprenditori a cercare il contatto con esponenti della camorra nell’illusione di un rapporto temporaneo, finalizzato a superare una crisi di liquidità, a recuperare crediti di ingente valore o fronteggiare la concorrenza. Quando la camorra diventa imprenditrice legale vuol dire che ha trovato la disponibilità di imprenditori e professionisti e la condivisione di un terreno ampio di illegalità economica. Emerge insomma un’evidente liaison tra l’ abitudine all’illegalità di vasti settori economici, la consulenza di professionisti dell’aggiramento delle leggi e la criminalità camorristica. L’evasione fiscale, le frodi fiscali, il ricorso ampio alla corruzione, il clientelismo politico e amministrativo predispongono settori sempre più ampi della borghesia non criminale a incrociare gli interessi malavitosi.
Insomma non si capirebbe niente delle camorre di oggi senza indagare su di una parte dell’economia della città e della sua area metropolitana e dei suoi ceti professionali, che trattano le camorre come dei normali agenti economici, o clienti, con cui rapportarsi. 
Una parte della nostra economia si sta mettendo nella lunghezza d’onda delle camorre. In che misura non è possibile stabilirlo. Ma se anche fosse una piccola minoranza, ciò non dovrebbe rassicurarci: non sono le minoranze che rivoluzionano le cose? 
Intanto le aziende sane, i commercianti seri e i professionisti scrupolosi debbono affrontare una competizione che si avvale di introiti e metodi illegali. E sull’economia della città viene posto un tappo che ne compromette ancora di più le potenzialità.
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