Suk Garibaldi, l’eterno déjà vu della Napoli irrisolta

di Piero Sorrentino
Lunedì 4 Luglio 2022, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Nel perenne “ricomincio da capo” cittadino, tocca a piazza Garibaldi un ruolo unico, tutto speciale: la parte di Araba Fenice che risorge dalle ceneri di tutte le volte che è andata in fiamme. Metà animale mitologico, metà triste realtà urbana, in quella parte di Napoli sono capaci di darsi convegno tutti i più perversi vizi locali: l’insulso bla bla politico, l’imbarazzante paralisi amministrativa, l’inesausta fonte di inciviltà di chi la ritiene una specie di zona franca dove tutto è possibile, tutto è consentito e anzi addirittura promosso e incentivato. 

Da quanto parliamo di piazza Garibaldi? Da quanto discutiamo, proponiamo? Quanti dibattiti ha suscitato, quante posizioni ha promosso? Non esiste altra porzione del territorio urbano cittadino che sia riuscita a smuovere tonnellate di parole. E non perché sia una zona di Napoli soggetta a mutamenti, esposta a mille evoluzioni, capace di mutare pelle e dunque bisognosa di sempre nuovi confronti. No, è esattamente per il motivo opposto, per la sua immobilità, per la sua straordinaria abilità di restare uguale a sé stessa nonostante il tempo che passa. Piazza Garibaldi è la vera Dorian Gray della città, capace di restare fissa e chiusa nei confini dei suoi problemi senza che a questi si riesca a trovare una soluzione utile e sensata. Oggi c’è disagio, violenza, degrado, anarchia, spregio generalizzato delle regole, difficile convivenza tra residenti e comunità straniere? Erano i medesimi due, cinque, dieci o venti anni fa. 

Da questo punto di vista, l’assalto della scorsa settimana di un centinaio di persone contro i cinque agenti della polizia municipale circondati e aggrediti nel corso di un controllo nella zona del Vasto è una di quelle costanti che sono ormai una sorta di rumore di fondo al quale – con una inquietante serenità – quasi abituati. Ci diciamo che sì, in fondo càpita, sono gli incerti del mestiere, che ovviamente ci dispiace per i vigili presi a calci e pugni, per gli spintoni, gli insulti e addirittura i morsi, ma si sa, è un mestiere difficile. È come se fossero queste, le notizie che ci aspettiamo da piazza Garibaldi. Non i restyling della zona, non l’installazione delle giostrine o dei campi da basket, non la piantumazione di piante e alberi. Con un po’ di intuito e quel giusto pelo sullo stomaco, quei fatti sappiamo collocarli immediatamente nel registro delle operazioni di facciata, dei tentativi ai quali, in fondo, non credono pienamente neppure quelli che li promuovono.

Ma la storia non è acqua. La piazza Garibaldi ripulita, o presunta tale, è pur sempre diretta emanazione di quella che abbiamo imparato in lunghi anni di allenamento come la vera piazza Garibaldi, che ha sviluppato una antica e lunga contiguità con le mille forme di violenza e illegalità che da sempre la caratterizzano. Mentre lo Stato di diritto, da tutti a parole celebrato e riverito, nei fatti convince l’animo solo di sparute minoranze: quanti sono infatti, ancora oggi, quelli che abboccano alla storia del nuovo corso del Vasto, del ritrovato senso delle regole, del pugno duro contro irregolarità e crimini più o meno gravi? In realtà, il germe dell’illegalità e di quella sua manifestazione estrema che spesso sfocia nella violenza, la città lo porta in un certo senso dentro di sé, nella sua storia e nel suo modo di funzionare. A Napoli accettiamo una certa quota di degrado, illegalità e violenza perché ci siamo abituati all’idea che in fondo è così che funziona, e al reticolo di vie e piazze che si stende intorno alla zona della Stazione centrale abbiamo affidato precisamente questa funzione, come fosse una sorta di sfiatatoio o di valvola di sicurezza che entra in funzione quando la pressione nella pentola rischia di raggiungere livelli pericolosi. 

Ha senso, in uno scenario come questo, ragionare di regole di fronte alle quali non arretrare neppure di un centimetro, come ha fatto il sindaco Manfredi nei giorni scorsi? Certo, a patto che continuiamo ad assegnare un nodo di consequenzialità tra le parole e i fatti. E i fatti, obiettivi, dicono che non ha alcun senso mandare in giro qualche pattuglia in più o fare un paio di sequestri in grande stile a favore di telecamere, tanto sappiamo poi che – tempo qualche giorno – tutto ritorna come prima. Per la zona della Stazione serve la spinta della cosa più difficile da trovare a Napoli: la visione, il disegno delle cose future, un progetto che sappia camminare su gambe solide e a lunghe falcate, non i soliti passetti traballanti che durano lo spazio di un mattino. Il rischio è sempre lo stesso: quello di ricadere nel medesimo retaggio utopico, sia pure diversamente declinato, di una piazza che certo cambierà finalmente volto, vedrete, un giorno certamente accadrà. Abbiate fiducia. 

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