Per Caruso e gli altri ​la memoria oltre l'evento

di Titta Fiore
Giovedì 13 Agosto 2020, 00:00
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Nel rapporto tra Enrico Caruso e Napoli, l’amore e la delusione s’intrecciano fortemente. Fu per troppo amore che il Tenore dei due mondi non diede il massimo cantando «L’elisir» di Donizetti al San Carlo, quella fatidica sera del 1901, e fu la delusione patita per la recensione poco generosa del barone Procida sul «Pungolo» a fargli giurare che nella sua città natale sarebbe tornato sì, ma solo per mangiare gli spaghetti alle vongole. E così fu. 

Ora, a 150 anni dalla nascita (25 febbraio 1873) e a 100 dalla morte (2 agosto 1921) del grande tenore, le cose non sembrano migliorate di molto. All’amore che molti dicono di voler testimoniare alla leggendaria figura di Caruso si accompagna ancora una volta la delusione per gli scarni risultati ottenuti. Scarni, se non nulli. Per le promesse mancate, per i progetti falliti, per la confusione dei programmi messi in campo, per le divisioni e le polemiche che tali prospettive non mancano di alimentare. Accade cioè, per Caruso, quello che è già accaduto per Eduardo, per Totò, per Pino Daniele, e per tante altre personalità che hanno portato e onorato la cultura napoletana nel mondo. Per ciascuno di loro, negli anni, sono stati annunciati omaggi roboanti, musei attrezzati a perpetuarne la grandezza, iniziative capaci di essere, a un tempo, testimonianze artistiche e attrattori di un turismo culturale all’altezza del talento celebrato. E invece sappiamo come spesso è andata a finire: nella maggior parte dei casi gli omaggi roboanti sono rimasti tali solo sulla carta.

Il museo dedicato a Totò nel Palazzo dello Spagnolo, magnifico gioiello barocco nel cuore del Rione Sanità, e per il quale tanto si sono spese la figlia dell’attore, Liliana de Curtis, e sua nipote Elena Anticoli de Curtis, non ha visto la luce e aspetta ancora, dopo decenni di rinvii, una tardiva agibilità, mentre l’edificio in cui nacque il Prinicipe della risata, in via Santa Maria Antesaecula, versa in gravi condizioni di degrado. Ospitata nei locali del Mamt, il museo della Pace di via Depretis, l’esposizione permanente dei cimeli, delle foto e degli strumenti di Pino Daniele non è mai stata di facile accesso. E l’idea di trasformare il San Ferdinando, il teatro di Eduardo che per volontà del figlio Luca fu donato alla città, nella casa delle sue commedie, dopo molte ipotesi anche interessanti, è rimasta lettera morta. Eppure non è difficile immaginare l’interesse che iniziative ben strutturate nel nome e intorno a simili personalità potrebbero avere nel pubblico, non solo italiano.

E allora? Ancora una volta Napoli dimostra di avere memoria corta e di non tenere il proprio patrimonio di arte e di talenti nel debito conto? C’è anche questo, nella trascuratezza con cui si gestiscono determinati accadimenti, ma non solo. Perché per certi versi la città si dimostra più che sensibile all’«eventismo», alla celebrazione estemporanea, allo spontaneismo delle iniziative. A Napoli San Gennaro e Maradona, Totò e Luciano De Crescenzo, Pino Daniele, Massimo Troisi e lo stesso Caruso hanno conquistato da tempo le facciate dei palazzi dal centro storico alle periferie, in perfetta per condicio estetica, e una targa commemorativa sugli edifici che videro la nascita di questa o quella celebrità non si nega a nessuno. Ma è evidente che c’è bisogno di altro. Che all’omaggio genericamente inteso va affiancata una diversa progettualità. Che perfino immaginare un percorso e museificarlo, nella migliore delle ipotesi, non basta a onorare la complessità di una proposta artistica. Nei confronti della sua cultura millenaria Napoli ha dimostrato di saper riconoscere, coltivare, salvaguardare i fondamenti preziosi dell’identità. A patto che tale identità non si svilisca nello stereotipo, nel luogo comune, nella banalità della prospettiva. Se la parola non fosse troppo abusata, diremmo che anche in questo campo sarebbe il caso di fare sistema. E di immaginare per la cultura e lo spettacolo iniziative collegate e diffuse che traggano forza e linfa le une dalle altre.

Sarebbe bello immaginare, allora, per Enrico Caruso, un itinerario che dalla casa natale di piazzetta Ottocalli passi per il San Carlo, dove un museo c’è già e potrebbe ospitare non solo i cimeli del tenorissimo ma anche le sue incisioni, per metterle a disposizione degli appassionati, e tocchi infine la cappella a Poggioreale dove il tenore riposa e che è già meta di pellegrinaggi dei fans da ogni parte del mondo. Sarebbe bello superare le polemiche nel segno di un comune interesse culturale invece di immaginare improbabili traslazioni dei resti di Caruso oltreoceano. Sarebbe bello, anzi è bello, esercitare la cultura nei luoghi che l’hanno generata. E farla vivere, così, senza bisogno di chiuderla tra quattro mura.
 
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