Maria Paola e Giammy, ​se la parola si fa violenza

di Piero Sorrentino
Lunedì 21 Settembre 2020, 00:00
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La settimana che va dall’inseguimento mortale tra le strade del parco Verde di Caivano – finito tragicamente con la morte di Maria Paola Gaglione – alla aggressione omofoba di piazza Bellini, culminata in una vera e propria spedizione punitiva contro un giovane picchiato da una folla di dieci vigliacchi – traccia un arco che andrebbe osservato con grande attenzione, perché rappresenta non solo una messa in mora di alcune granitiche certezze (no, spiacenti, la violenza che nasce dalla omotransfobia non è affare esclusivo di periferie sporche e degradate), ma rappresenta anche una profonda crisi del linguaggio, perché ci spinge alla distinzione di un’area semantica, quella legata alla parola “violenza”, che non basta più, che non è più sufficiente. E, si badi bene, non si tratta di una trascurabile pedanteria nominalistica. 

«Le parole sono importanti, e chi parla male pensa male», diceva Nanni Moretti. È violenza quella che ha portato via la vita di Maria Paola Gaglione ed è violenza quella che ha travolto Giammy Vitagliano, ma un uso improprio e generico di questa parola fa prosperare il caos e rende tutto uguale a tutto, e laddove tutto si confonde, niente più si distingue: e se niente più si distingue, perché dovremmo fare lo sforzo di capire e di agire, di leggere la realtà e intervenire? La tentazione è sempre la stessa. Si dice: che violenza bestiale. Ma dinnanzi al carattere sfuggente e generico della parola, queste immagini diventano ingannevoli, perché finiscono con l’essere riassunte sotto un cappello onnicomprensivo che in fondo circoscrive, attenua, minimizza, smussa gli angoli. Per definizione, la violenza è proprio ciò che si sottrae alla possibilità di muoverle guerra in maniera frontale, diretta. 

Come fai a battere la violenza? L’uomo, in fondo, è un animale violento. Il consorzio umano funziona perché esistono le leggi, la religione, la cultura, ma di fatto quella pulsione è sempre presente, può saltare fuori in ogni istante. Dire “violenza”, in ultima analisi, significa dire “ci spiace tanto, ma alcune persone sono così e non possiamo farci nulla”. Siamo cittadini che vivono in una città europea, libera, occidentale. La violenza ci è completamente estranea. Abbiamo sepolto sotto centinaia di anni di pace e cultura le consuetudini ancestrali e antropologiche legate alla violenza, e di fronte a questa – quando la brutalità, ogni tanto, affiora – possiamo solo essere inermi. Spettatori indignati, ma passivi. Ci spiace per Maria Paola, ci spiace per Giammy. Speriamo che non capiti a noi, o a qualcuno a cui vogliamo bene. Tutto qui? Sì, spiace dirlo, ma: tutto qui.

È per questo che è importante cominciare a chiamare le cose col loro nome. Quella contro Maria Paola e Giammy non è semplice violenza. È frutto di odio e discriminazione, di intolleranza e volontà di sopraffazione contro persone Lgbt che vivono il loro amore in piena libertà e autonomia. Maria Paola è morta perché aveva dichiarato a tutti la sua volontà di vivere con Ciro. Giammy è stato accerchiato e picchiato perché gay, anzi no, “frocio”. Le parole sono importanti, dicevamo, e proprio i protagonisti negativi di tutte e due questi casi dimostrano di saperlo perfettamente.

Nel caso di Maria Paola, si trattava del suo dire “ti amo” a Ciro. In quello di piazza Bellini, l’aggressore non se l’è legata al dito perché aveva avuto una banale discussione con un giovane al centro storico, ma perché quel giovane è, appunto, “frocio”, e lui ci ha tenuto immediatamente a sottolinearlo, urlandoglielo in faccia, prima di promettergli che sarebbe tornato per chiudere degnamente la discussione. Parole di libertà contro azioni violente, idee contro odio: è una partita che possiamo accettare? “Felice chi è diverso/ essendo egli diverso./ Ma guai a chi è diverso/ essendo egli comune” dicono quattro memorabili versi di Sandro Penna. Napoli non può pensarsi sempre e solo diversa. Non può pensare a sé stessa come a una perenne isola felice, dove tutte le alterità sono accettate. Non basta dirsi aperta e tollerante (lo è, certo, assai più di altre città italiane) e ritenere di aver concluso così la faccenda. Accettare che, entro un recinto di diversità, stanno affiorando troppi tratti “comuni” ad altre città è un segno di maturità e non l’indice di una sconfitta. Abbiamo creduto per molto tempo di essere “diversi essendo diversi”. La responsabilità di questa rimozione va oggi riconosciuta. Aver privilegiato la sfera emotiva, affettiva, relazionale non è necessariamente frutto di una impostura.

Napoli è e continua a essere una città che sa riconoscere ed espellere la violenza contro la comunità Lgbt. Ma forse è venuto il momento di riconoscere che c’è, intorno a questo tema, un malessere sordo e strisciante che è più profondo e largo di quanto abbiamo creduto fino a oggi, che andrebbe riconosciuto più con il pessimismo della ragione che con l’ottimismo della volontà. Non riconoscere quanta potenza negativa scaturisca da qui, vuol dire dare più vigore alla sua forza inconscia. E la forza inconscia, poi, lo sappiamo, spesso diventa brutalità consapevole.

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