Il Gobbo di Notre-Dame è davvero esistito? E davvero il mitico Biscornet, il Fabbro della Cattedrale, si recò nei bassifondi dell’Ile Saint Louis alla ricerca del Re degli Inferi? Storie e leggende di un capolavoro che risorge.
Nella Francia scossa dall’instabilità politica la rinascita di Notre-Dame, uno dei simboli della cristianità più conosciuti del mondo, è balsamo sulle ferite. È, soprattutto, l’evento globale che consentirà al Paese di tornare sotto i riflettori del mondo per i suoi tesori e per la capacità di risorgere dalle proprie ceneri. Sono trascorsi cinque anni dal rogo che, il 15 aprile 2019, distrusse in gran parte l’esterno e l’interno della Cattedrale. Cinque anni durante i quali tagliatori di pietre e fabbri artigiani, falegnami ed ebanisti, maestri vetrai e restauratori di dipinti, scultori e decoratori, doratori e costruttori di organi hanno realizzato di concerto un’impresa che sembrava impossibile: riportare Notre-Dame al suo antico splendore a partire dalla ricostruzione della celebre flèche, la guglia crollata nelle fiamme dell’incendio.
Quando il simbolo di una città universale come Parigi va in fumo, scrivemmo allora, muore una parte di noi. Notre-Dame, al centro di Parigi, al centro della Francia, non è soltanto uno dei monumenti più visitati del pianeta, la chiesa più importante della cristianità dopo la Basilica di San Pietro, ma un luogo presente da sempre nell’immaginario collettivo del mondo occidentale, un lascito del passato depositato nella coscienza e nella storia dell’uomo moderno.
Rieccola, la Cattedrale. Con il Re dei Folli, Quasimodo, e Carlo Magno a cavallo che gli volge le spalle. Con i suoi serpenti, i suoi draghi e i suoi simboli esoterici. Con il fabbro Biscornet che fece un patto col diavolo per realizzare i portali. Storia di abissi e inquietudini, di bellezze e misteri. Riecco - restituito al mondo, non solo alla Francia - il capolavoro gotico che Victor Hugo definì «una sinfonia in pietra, opera colossale di un uomo e di un popolo, prodotto prodigioso del concorso di tutte le forze di un’epoca». Punto d’osservazione privilegiato dal quale lo scrittore, nella sua opera più celebre, volse il suo sguardo verso la Parigi del Medioevo e verso gli strati più bassi della popolazione.
Pochi edifici al mondo hanno una storia leggendaria come Notre-Dame de Paris. Le due torri - dove nel capolavoro di Victor Hugo, “Notre-Dame de Paris”, vive Quasimodo, il campanaro guercio, zoppo e sordo, che nella solitudine del campanile si rifugia come un animale nella sua tana - svettano per 69 metri nel cielo di Parigi. La Galleria delle Chimere è il posto migliore per godere di una visione ravvicinata delle gargoyle, le mostruose creature di pietra che si sporgono dalla sommità della cattedrale - a volte animandosi, vuole la leggenda - per avvertire i malintenzionati, per difendere la loro chiesa. Sentinelle mute e spettrali che sembrano riportarci alle cupe atmosfere del Medioevo. In realtà le 54 statue dall’aspetto demoniaco che troneggiano su Notre-Dame sono state aggiunte nel diciannovesimo secolo, per opera del geniale architetto Eugène Viollet-Le-Duc, che trascorse quasi vent’anni a restaurare statue, portoni e vetrate: le gargoyle originali andarono distrutte durante la Rivoluzione Francese, quando Notre-Dame venne adibita a Tempio della Ragione.
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In un celebre passaggio del suo capolavoro, Hugo descrive con straordinario realismo la scena di un incendio. «Tutti gli occhi si erano alzati verso la cima della chiesa. Quel che vedevano era straordinario. In cima alla galleria più alta, sopra il rosone centrale, c’era un’enorme fiamma che montava tra le due torri con turbini di scintille, una grande fiamma disordinata e furiosa di cui il vento a tratti portava via un limbo nel fumo». In realtà quella descritta nel capitolo «Un amico malaccorto» non è davvero la scena di un disastro, ma una diversione escogitata da Quasimodo per distrarre i truands, gli accattoni che di notte avevano assaltato la cattedrale per liberare Esmeralda dal gobbo. Quasimodo getta pietre, travi e piombo fuso sugli zingari dall'alto della chiesa per guadagnare tempo in attesa dell'arrivo dei soldati di Luigi XI e arriverà ad uccidere per sbaglio il fratello dell'arcidiacono Frollo, a sua volta innamorato di Esmeralda.
La parole di Victor Hugo apparvero ad ogni modo profetiche nelle ore drammatiche del 15 aprile 2019, quando le immagini di Notre-Dame divorata dalle fiamme fecero il giro del mondo. Il rogo si era sviluppato su un ponteggio installato sul tetto dell’edificio, dov’erano in corso lavori di restauro, raggiungendo rapidamente l’intera copertura e distruggendo la struttura, la più antica di Parigi, fatta col legno di 1300 querce, due ettari di foresta. Un’ora dopo, la guglia di Notre Dame, costruita nel 1860 su progetto del leggendario architetto romantico Eugène Viollet-le-Duc e alta 45 metri, crollava aprendo una voragine nella volta e lasciando il mondo intero con il fiato sospeso.
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Il Gobbo di Notre-Dame è realmente esistito? Qualche anno fa, dal diario di uno scalpellino inglese, Henry Sibson, è spuntata la storia di uno scultore gobbo di nome Trajan, vissuto nella Parigi degli anni ‘20 dell’Ottocento e impegnato nei lavori di restauro della cattedrale dell’Île de la Cité. Fu costui a scrivere nel suo diario: «A Notre Dame conobbi Monsieur Trajan, una delle persone più gentili che abbia mai incontrato. Lavorava come incisore per lo scultore-capo, il cui nome non mi ricordo. Era gobbo e non amava mischiarsi con gli incisori: gli scalpellini gli avevano dato il soprannome «Le Bossu». Ovvero il Gobbo, in francese. Recentemente alcuni ricercatori della Tate Gallery hanno scoperto che gli scultori e gli incisori descritti nel diario di Sibson lavoravano in un atelier vicino alla École des Beaux Arts situata nel sesto arrondissement di Parigi. È il luogo dove negli anni ‘20 dell’800 viveva Victor Hugo. Lo scrittore ha conosciuto Trajan il gobbo e si è ispirato a lui per dipingere il suo deforme campanaro? Molto probabile. Altrettanto probabile è che a Trajan le bossu Hugo si sia ispirato per un personaggio che compare nella prima versione de «I miserabili», quel "Jean Trejean" che diventò poi "Jean Valjean" nella versione definitiva.
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