Pd, i leader di un partito invisibile

di Mauro Calise
Domenica 16 Settembre 2018, 22:57
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È probabile – probabilissimo – che, come sospetta Zingaretti, la proposta di azzerare il Pd sia solo l’ennesimo espediente per rimandare il congresso.

Venendo poi dal presidente del partito, suona anche alquanto surreale. Ma in questi tempi di vacche magrissime per ciò che resta del centrosinistra, forse conviene cercare di cogliere il lato positivo della proposta. Accettandone l’aspetto sostanziale, l’idea cioè di resettare il Pd. Lasciando aperta la discussione su come ciò possa diventare, invece di un pretesto dilatorio, un incentivo motorio. E il modo mi sembra uno solo. Dichiarare apertamente che il prossimo congresso del Pd non può limitarsi a far votare coloro che sono già dentro. E tanto meno secondo gli organigrammi attuali. Ma, come si addice appunto a un congresso di rifondazione, si deve lasciare spazio alle forze che affluiranno dall’esterno. Meglio se organizzate. E meglio ancora se organizzate in modo innovativo.
Il precedente illustre lo abbiamo. Ed è la rete che Renzi mise su quando affrontò le prime primarie. Quelle della sconfitta cui seguì il suo magistrale discorso di – provvisorio – addio alle armi. Pochi ricordano che la mattina dopo la disfatta renziana fu proprio Orfini – all’epoca schierato con Bersani – a negare senza mezzi termini che il movimento renziano potesse confluire come nuova linfa nel Pd. Andava sciolto, immediatamente. Renzi si piegò a quella logica. Rispedendo a casa gli elementi più vitali del suo rinnovamento. Quando, pochi mesi dopo, si aggiudicò la rivincita e si impadronì del partito, la sua scalata non fu più dall’esterno. Sul suo carro erano salite buona parte di quelle stesse truppe bersaniane – Orfini in testa – che avevano fiutato il cambio di vento, e di leader. Ma in questo modo a Renzi vennero meno proprio le schiere dei renziani ante litteram, quei militanti – soprattutto giovani – con la voglia di rottamare tutto. Quegli stessi che servirebbero oggi, se mai si vuole lontanamente sperare che la sinistra si rimetta in moto.
È questo il rebus - il Rubicone – di fronte a cui si trova Zingaretti. Il governatore del Lazio ha ragione a pretendere che si faccia il congresso, in tempi rapidi. Ma se il congresso si ridurrà alla conta della parte del Pd che lo appoggia contro quella che si schiera con Renzi, si tratterà di un congresso inutile. Alla fine, al vincitore resterà una cabina di comando, ma priva – avrebbe detto Nenni – dei bottoni per fare muovere alcunché. Per come è ridotta ora, la macchina del Pd riesce a malapena a designare qualche sindaco di qualche cittadina minore. Figuriamoci a mettere in moto il sommovimento – verticale e territoriale - di cui ci sarebbe bisogno per provare almeno a contenere l’egemonia pentaleghista.
Zingaretti – o chiunque aspiri davvero a rifondare il centrosinistra – ha bisogno di lavorare fin da subito – e nella massima autonomia – a un progetto organizzativo in grado di raccogliere nuove energie: sociali, intellettuali, economiche. Prendendo, così, sul serio l’invito di Matteo Orfini a una ripartenza ex-novo. Tanto sul serio da rifiutarsi di frapporre ulteriori indugi. E passando subito ai fatti. E i fatti sono che non c’è alcun bisogno di dilapidare – e tantomeno di liquidare – il patrimonio ideale e umano che ancora il Pd porta in dote. Ma che se la sfida si riduce ad azzannarsi per contendersi queste spoglie, dal diciassette percento attuale rapidamente si arriverà al dodici. Invece al Pd serve, e subito, una trasfusione dall’esterno. 
Serve sul piano del messaggio. Perché sia subito chiaro che si tratta di un rinnovamento radicale, che niente più sarà come prima. A cominciare da una idea di mobilitazione, partecipazione e organizzazione capace di strappare ai legastellati l’attuale monopolio del Web. E serve sul piano della credibilità e identità. La popolocrazia – copyright Diamanti e Lazar - non è un fenomeno passeggero. Per sconfiggerla, o almeno contrastarla, serve una nuova visione del mondo. Non basta un nuovo partito.
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