Più controlli chiudere non serve

di ​Federico Vacalebre
Domenica 9 Agosto 2015, 23:02 - Ultimo agg. 23:20
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E ora chiudeteci tutti, polemizzano sui social network dj e ragazze immagine, proprietari e gestori di locali, preoccupati per fatturati, posti di lavoro, diritto di una generazione alla sua forma di svago preferita.

La chiusura del Cocoricò ha sollevato polemiche arroventate e, naturalmente, non ha risolto il problema. Chiudere anche il Guendalina non basterà, non servirà, non renderà la vita all’ennesima vittima di una guerra che lo stato italiano ha deciso da tempo di non combattere nemmeno, stretto tra un assurdo proibizionismo teorico ed un ancor più assurdo lassismo pratico.



A Londra nei locali di diversi quartieri ormai si entra sottoponendosi all’alcol test: i quattro morti per droga in tre anni al Fabric - un tempo era davvero una fabbrica, ora è uno dei tempi dei dj alla ricerca del «perfect beat» - hanno costretto a nuove misura di sicurezza e prevenzione. Il popolo della notte ha voglia di divertirsi, il popolo dello sballo rischia grosso, intercettarlo all’entrata è uno dei tentativi messi in campo in una metropoli dove l’Mdma è di casa, dove l’ecstasy detta legge sulle pedane ormai da decenni. Immaginare di accogliere i ragazzi con i cani antidroghe è probabilmente anticommerciale, ma qualcuno l’ha chiesto a viva voce. Come anche eseguire tamponi sulla saliva dei clienti all’entrata e all’uscita dal locale.



Chiudere le discoteche è come chiudere gli occhi su un dramma, spegnere la musica in attesa che il consumo, lo spaccio, il tragico fato si compia altrove.



In fondo il problema è quello di una connivenza culturale, sottoculturale, criminale, banalmente menefreghista. I divertimentifici di Ibiza, di Manchester, di Riccione, di Bagnoli, di New York non sono colpevoli delle morti che puntualmente si registrano tra divanetti che solo le luci stroboscopiche mostrano eleganti e bagni che sono centrali di distribuzione di ogni tipo di stupefacenti. Ma non posso chiamarsi fuori dall’allarme generazionale, soprattutto oggi che dietro il consumo delle droghe non c’è alcuna cultura, o sottocultura che sia, ma solo e soltanto la voglia di sballo, di fuggire ad una quotidianità dove l’unica certezza è la precarietà.



Le discoteche chiuse assomigliano agli stadi vuoti dove si gioca per le tv, sono un paliativo, forse nemmeno, al massimo un placebo. E qui gli inglesi con la dura e vinta lotta agli hooligan potrebbero insegnarci di nuovo qualcosa. I gestori italiani dei locali cult che dicono di non poter fare nulla per evitare la diffusione degli stupefacenti sulle loro piste assomigliano a quelle società calcistiche che dicono di non aver nulla a che fare con i tifosi violenti. Fabrizio De Meis, proprietario del Cocoricò, invoca una sorte di Daspo per le discoteche: chi commette reati nei regni della dance viene espulso per un tot di tempo o per sempre. La proposta è ferma da un anno alla Camera, se ne è riparlato solo per le tragiche morti di questi giorni. Chiuso il Cocoricò, chiuso magari anche il Guendalina, non diminuiranno gli spacciatori, e, probabilmente, neanche le vittime.