Sindaci manager ma la classe dirigente locale è inadeguata

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 29 Maggio 2022, 00:00 - Ultimo agg. 07:00
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Qualche giorno fa, nell’ambito delle celebrazioni del centotrentesimo anniversario della fondazione del Mattino, si è svolto un interessante confronto a due tra il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, e il suo omologo romano, Roberto Gualtieri. Moderato da Vittorio Del Tufo, ne ha dato notizia su questo giornale Luigi Roano. Al centro della discussione, immancabilmente di questi tempi, i fondi del Pnrr. Gualtieri e Manfredi hanno rivendicato più potere per i sindaci e chiesto che siano direttamente i comuni a gestire i soldi in arrivo dall’Europa. In poche parole, che si estenda alle grandi città l’ambito di quei poteri un tempo esercitati dallo Stato centrale e che sempre più, negli ultimi decenni, sono stati trasferiti agli enti locali. 

Il piano nazionale di ripresa e resilienza, in questo quadro, dovrebbe essere l’occasione per un passo ulteriore sulla strada della decentralizzazione del sistema di governo nel nostro Paese. Stretto tra poteri sovranazionali e l’emergere di nuovi centri territoriali di gravitazione politica, come sono ormai da anni le Regioni, lo Stato vedrebbe ulteriormente indebolite le sue prerogative dall’affermarsi di un ulteriore polo decisionale dotato di potestà autoritativa: il sistema delle grandi città italiane. 

Come però è emerso dal prosieguo della discussione, il problema del governo delle città, e in modo particolare delle grandi città, non può essere contenuto dentro il perimetro tradizionale del confronto tra centro e periferia, vale a dire nell’ambito di una contrapposizione che ha per oggetto risorse autoritative e finanziarie disputate tra livello statale nazionale e livello locale. A leggere con attenzione la cronaca del dibattito, non si può infatti non notare lo slittamento dei termini del confronto su di un piano che difficilmente appare coerente con lo schema di cui sopra. 

Manfredi dice che i compiti di un sindaco sono di natura squisitamente organizzativa: Napoli, dichiara, ha bisogno di organizzazione e il suo sogno è, al termine del mandato, lasciare una “città organizzata”. Come dargli torto. 

Ma di cosa sta parlando esattamente l’ex rettore della Federico II? Essenzialmente dei compiti managerial-gestionali del sindaco. Il governo della città è sempre più compreso in termini di “governance urbana”, la parola chiave di tutte le nuove teorie che regolano la conduzione dei fenomeni complessi, siano essi un’impresa, una società, ente o istituzione. Quando, allora, si passa dal government alla governance, dal comando che emana dal centro e dall’alto, alle scelte gestionali compiute da un soggetto dotato di autonomia decisionale in vista del perseguimento di un obiettivo determinato, il conflitto centro periferia, Stato ente locale, non è più la chiave privilegiata per comprendere ciò che accade. Sul terreno della governance altre dimensioni entrano in gioco.

Per restare sul terreno della discussione napoletana tra Manfredi e Gualtieri, due in particolare sono le dimensioni critiche che emergono sul nuovo terreno: le risorse umane e la politica.

Manfredi, ad esempio, ha lamentato il blocco del turn over per effetto delle brutali politiche di contenimento della spesa pubblica che, a partire dal 2008-2011, hanno gravemente impoverito il patrimonio di competenze tecnico-gestionali a disposizione della macchina comunale. Gualtieri è intervenuto di rincalzo, ricordando che le amministrazioni affidate alle loro cure sono fatte di uffici svuotati e personale invecchiato. Dall’altra parte, lo spettacolo dei modi di interazione, un tempo si sarebbe detta la dialettica, tra il sindaco e il consiglio comunale non offre elementi per un quadro più incoraggiante. Ancora il sindaco di Napoli parla di un assalto rissoso alle politiche pubbliche da parte dei rappresentanti dei partiti che siedono nell’assemblea cittadina.

Su questo piano non è più possibile evocare lo scontro con lo Stato centrale. Il tipo di argomentazione del tipo “siamo vittime del centralismo”, qui non funziona più. Su questo piano, la responsabilità è tutta della sfera locale. Nel momento in cui si dovesse rimettere in moto il meccanismo del reclutamento, il problema non sarebbe reclutare le competenze (vorrei veramente vedere il caso di chi si prefigga come obiettivo di assumere degli incompetenti), ma mettere la procedura di selezione al riparo da fenomeni di cattura clientelare del processo valutativo. La questione è ancora una volta la qualità della classe dirigente locale, la sua fedeltà all’interesse pubblico, la tenuta di comportamenti capaci di tutelare l’integrità del processo amministrativo come massimo bene collettivo. Quanto sono credibili su questo piano le attuali amministrazioni cittadine, siano pure amministrazioni di grandi città? Che garanzie sono in grado di offrire? Soprattutto, quanto i primi cittadini saprebbero resistere a quell’assalto fazioso di cui parla il sindaco Manfredi?

Sia ben chiaro, qui in discussione non è assolutamente l’attendibilità morale delle persone, ma la loro forza politica di fronte alle coalizioni di interessi che ne hanno reso possibile l’ascesa alla carica che attualmente ricoprono. Se il consiglio comunale di Napoli, per restare all’esempio più vicino, offre lo spettacolo che lo stesso sindaco evoca, questo da che dipende? L’estrema frammentazione della rappresentanza cittadina, il suo costituirsi esplicito intorno ad interessi estremamente particolaristici, la pressoché totale assenza di una direzione politica degli eletti che non sia il controllo dei rispettivi capi corrente, tutto questo costituisce non un accidente ma, a voler essere intellettualmente onesti, il sistema di composizione degli interessi locali che ha reso possibile la vittoria della coalizione di sinistra che attualmente governa la città. E allora, la domanda è molto semplice: di fronte a questo quadro politicamente così arretrato, quali garanzie può accampare la gestione manageriale di Napoli a cui aspira Manfredi? 

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