Raccontare oggi la Shoah e il male che ci tocca

di Titti Marrone
Giovedì 26 Gennaio 2023, 23:45 - Ultimo agg. 27 Gennaio, 07:31
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In questo 2023, le immagini sul giorno della memoria si sovrappongono a quelle sulla guerra in Ucraina, con il risultato di un accavallamento che può generare confusione. 

E se fino al 27 gennaio dello scorso anno il rischio prevalente era l’effetto “anniversario comandato” di una memoria ritualizzata e quindi banalizzata, a un anno dall’inizio del conflitto nel cuore d’Europa le analogie con le atrocità della Seconda guerra mondiale suggeriscono altre riflessioni. Perché fanno scattare l’impulso a stabilire delle similitudini. Tra le file dei deportati verso i lager e gli immigrati caricati sui gommoni. Tra i bambini nascosti nelle soffitte per salvarli dalle retate naziste e quelli nei sotterranei della metro di Kiev. Ma è giusto assecondare quell’impulso, ed è sensato far affiorare le somiglianze tra il presente e l’unicum per eccellenza dell’incarnazione del Male nella storia umana chiamato Shoah?

Viene da porsi questa domanda se, come me, capita di avere molti incontri con scolaresche in prossimità del giorni della memoria per aver scritto libri e raccolto testimonianze sull’argomento. In un recente incontro con il liceo Matilde Serao di Pomigliano, un gruppo di studenti ha presentato un ricco lavoro di scrittura e visivo sulla Shoah, tra cui spiccava la lettera della giovanissima Claudia Tortora - di papà napoletano e mamma ucraina - al piccolo ebreo napoletano Sergio De Simone, usato come cavia in esperimenti nazisti e ucciso. Una lettera struggente e bellissima, pubblicata dal Mattino il 22 scorso, dove la cancellazione dell’infanzia dei bambini ebrei rincorre il racconto sui ragazzini ucraini “strappati via dalle loro famiglie per combattere contro il loro grande nemico: la guerra”.

Nel leggere la lettera di Claudia il fratello del piccolo Sergio, Mario De Simone nato dopo la guerra, ha molto apprezzato la sensibilità manifestata nello scritto ma ha tenuto a precisare che la Shoah non può essere paragonabile a null’altro poiché “è un compendio della cattiveria umana nelle sue possibili perverse sfaccettature”.

Ed è, questo, lo stesso pensiero introdotto già dal 1967 da Elie Wiesel che in tutta la sua opera ne ha fatto un topos quasi sacrale, condiviso da buona parte della comunità ebraica internazionale e strenuamente difeso, al punto che procedere per analogie e paragoni tra Olocausto e altri genocidi è stato percepito come una sorta di eresia. Il dibattito è in corso da anni, ma i temi che agita si possono forse oggi meglio precisare. Cominciando col dire che realmente l’unicità della Shoah è un caposaldo delle riflessioni sulla storia del secolo scorso: mai prima del 20 gennaio 1942, quando un gruppo di importanti gerarchi nazisti pianificò la “Soluzione finale” nella villa di Wannsee, era stato studiato e deciso al tavolino lo sterminio di un intero popolo inerme. Dopo di allora, e soprattutto negli ultimi decenni però, come scrive Anna Foa, “il dogma dell’unicità della Shoah ha cominciato non tanto a essere posto sotto accusa quanto a sgretolarsi lentamente”.

Si tratta di sicuro di un processo ancora in fieri, legato alle nuove dolorose atrocità cui abbiamo assistito, che ci hanno costretto ad aggiornare l’elenco dei genocidi del Novecento, da Srebrenica in poi, ma anche a riconsiderare quelli precedenti come l’herero e l’armeno. 

Ma a rendere un unicum la Shoah c’è, effettivamente, il “compendio della cattiveria umana nelle sue possibili sfaccettature” di cui parla Mario De Simone. Perché fu pianificata senza lasciare nulla al caso, come una perfetta operazione chirurgica, con gli strumenti della razionalità, della tecnologia più avanzata dell’epoca, con risorse finanziarie ingentissime, spietatezza assoluta, controllo maniacale e con la costruzione di un enorme sistema concentrazionario. Dunque, è stato importante parlare di un unicum, non solo per l’alto numero di vittime, non per stilare una macabra classifica, ma anche per porre un argine a un negazionismo che non si arresta.

Allora come parlare della Shoah oggi, agli studenti colpiti dalle immagini contemporanee di nuove guerre, nuove deportazioni e nuovi fili spinati? Come evitare sovrapposizioni, confusioni, banalizzazioni, scivolate retoriche? Probabilmente, facendo salvo il carattere “unico” della crudeltà messo in campo dal nazismo, va però accolto l’impulso a confrontare il passato con il presente che viene dai ragazzi. Purché paragonare non voglia dire confondere, o mettere in discussione, o sminuire.

Ma dice bene lo storico Luciano Canfora, “l’analogia costituisce una forma essenziale di conoscenza, e in particolare lo strumento principe della conoscenza storica”. Così come aiuta, nella comunicazione con i giovani, la forma letteraria. E a me fa un effetto assai singolare, intensissimo, la lettura appena intrapresa dell’ultimo romanzo di Rosella Postorino “Mi limitavo ad amare te”, di prossima uscita, dove si racconta di alcuni ragazzini di un orfanotrofio travolti dal gorgo della guerra nella ex Jugoslavia. Diversa da altre guerre, a suo modo terribile, con caratteristiche da non assorbire in uno stesso calderone di tragedie e dolori, ma anche caratterizzata da inquietanti rimandi a un passato-presente che non passa.

E forse oggi far affiorare le affinità, più che le differenze e l’unicità rispetto a un evento collocato nel punto più basso della scala del Male, può agevolare un elemento di consapevolezza: quando spuntano le spie rosse dei comportamenti inumani, prima che sia tardi è tempo di opporsi. Altrimenti la Storia sarà destinata a non essere mai quella maestra di vite che continuiamo a desiderare, e che indichiamo ai ragazzi nelle scuole. E altrimenti quel “mai più” ripetuto ogni 27 gennaio per loro rimarrà vuota retorica.
 

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