La corsa al reddito nel Paese diviso in due

di Ernesto Mazzetti
Lunedì 21 Gennaio 2019, 00:00
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Pronti. Via! Inizia la corsa al «reddito di cittadinanza». Farà scomparire la povertà in Italia? O si rivelerà equivalente ad una sorta di «corsa all’oro», con pochi fortunati e molti delusi, quasi quelle che nell’Ottocento spingevano migliaia di disperati verso la California? 

Lecito domandarselo ora che finalmente le scelte di governo si sono concretate nei decreti stampati in Gazzetta ufficiale. Dovrebbero – potrebbero, ma non mancano dubbi - aprire prospettive di tempi migliori per milioni di cittadini. Quelli che miseria e sfortuna collocano nell’ombra che da anni oscura la radiografia sociale della popolazione italiana. Sono i «poveri assoluti»: così l’Istat definisce quanti non risultano in grado di assicurarsi i consumi mensili che taluni parametri definiscono appena «accettabili». Se ne censiscono almeno 4,9 milioni, componenti 1,7 milioni di nuclei familiari. Molto più della metà risiedono nel Sud ed isole. La povertà affligge il 10,3 per cento delle famiglie meridionali e peggiora nel tempo: nel 2016 la percentuale era dell’8,5. 

Queste statistiche condizionano le vicende politiche. E si capisce! In un’Italia che da anni non riesce ad imboccare la via dello sviluppo e del riequilibrio territoriale è fatale che resistano sacche di miseria. E che si concentrino nel Sud, soprattutto nei suoi agglomerati urbani, Napoli in testa, per colpe di governi nazionali ma anche di inadeguate classi dirigenti locali. Il problema è come ovviarvi. Il M5S ha scelto la via della distribuzione diretta ai più poveri di sussidi definiti «reddito di cittadinanza». Ne ha fatto elemento portante del proprio programma e l’elettorato, specie meridionale, lo ha premiato. Ora che è al governo ha imposto agli alleati della Lega che tale «reddito» divenisse legge. A dispetto di riserve europee e degli economisti.
Vivono attese febbrili coloro che se ne presumono beneficiari. Dovranno meritarlo e non avranno un percorso facile, soprattutto perché l’apparato statale non è pronto. Ogni beneficiario dovrà essere seguito da un funzionario pubblico denominato «navigator». Una figura che ancora non esiste. 

Bisognerà crearla e prepararla: un po’ assistente sociale e un po’ sceriffo che vigila affinché sotto l’ombrello del Rdc non si svolga lavoro nero. Chi beneficia del Rdc dovrà accettare di prepararsi ad attività lavorative in vista di offerte provenienti dai Centri per l’impiego. I quali si sono rivelati finora incapaci di saldare domande ed offerte di lavoro; occorrerà rinnovarli nelle funzioni ed aumentarli nel numero. 

Polemiche e preoccupazioni arrivano a raffica. Provo ad individuarne qualcuna. Un primo dato riguarda la misura del reddito mensile da assegnare ai beneficiari. La base è 780 euro, variabile secondo condizioni familiari ed abitative. Non è detto che resti tale. Dopo i tagli imposti da Bruxelles, nel 2019 per il Rdc si dispone di 4,68 miliardi. Basteranno? Dipende dal numero dei beneficiari. La Svimez ha calcolato che la platea degli aventi diritto rende inadeguata la cifra stanziata. Ciò imporrebbe ridurre la base mensile a 390 euro. Altra però la questione di fondo. È utile oppur dannoso questo Rdc? Il vice premier Di Maio sostiene che potrà innescare un nuovo boom economico. Non riscuote consensi fuor del suo partito. Anzi sono molte le riserve circa gli effetti, in termini di avvio di processi di sviluppo e promozione sociale. Si dubita che la misura si riveli davvero salvifica per il Sud anche se a beneficiarne saranno soprattutto disoccupati napoletani e meridionali. «Farà male al lavoro nel Mezzogiorno» afferma Enrico Del Colle (Il Mattino, 15 gennaio) ragionando su prospettive a breve e medio termine. Dal canto suo la CGIL boccia l’intera legge di bilancio e ritiene in particolare sbagliato il Rdc.

Su aspetti strettamente politici Michele Salvati ha scritto di «uno scambio assai poco virtuoso fra la richiesta di autonomia fiscale delle regioni del Nord e il Rdc» (Corriere della Sera, 11 gennaio). Sullo stesso giornale Angelo Panebianco (15 gennaio) prevede forti tensioni nell’alleanza di governo perché il M5S, con il no alla Tav e alle trivelle, e con la difesa del Rdc, «testimonia una volontà di non contribuire allo sviluppo del Paese» ma di considerare le regioni più produttive come «mucca da mungere». A sorpresa, perché un tempo ritenuto vicino al M5S, il sociologo De Masi definisce quello attuale «un governo di stagisti» e che «il Rdc non c’entra nulla con la disoccupazione… un pannicello caldo» (Il giornale, 17 gennaio). Con l’eleganza (!) che lo contraddistingue Vittorio Feltri (Libero, 17 gennaio) invoca un referendum nazionale ipotizzando che siano «più numerosi i compatrioti avversi alle mance di Stato che non i lazzaroni speranzosi di ricevere l’obolo promesso da Di Maio”» Dal canto mio concluderei con un’ipotesi forse perfino ovvia: questo del Rdc sarà un lungo percorso che, tra polemiche e insulti, ancor più dividerà il Paese. 
 
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