Rischio burnout, la spia rossa del prof che si impicca a scuola

di Fabrizio Coscia
Giovedì 23 Maggio 2019, 22:30
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Non conosciamo i motivi che hanno spinto il docente di Musica della scuola media «Giovanni Pascoli» di Brescia a uccidersi, due giorni fa, nell’istituto dove lavorava. Di lui, un uomo di 47 anni, si sa solo che era un insegnante molto stimato dai colleghi e amato dai ragazzi (che coinvolgeva in appassionanti progetti scolastici). E del resto, si possono mai indovinare i motivi di un gesto così estremo e così disperato? Lo scrittore americano David Foster Wallace, anche lui suicida alla stessa età del docente di Brescia, ha scritto sull’argomento parole definitive: «La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme», si legge nel romanzo «Infinite Jest»: «Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme».

Eppure, nel tragico episodio di cronaca di cui stiamo parlando, a impressionare è il portato simbolico di questa morte. Scegliere di suicidarsi in una scuola non è la stessa cosa che farlo in casa o buttandosi sotto un treno o da un ponte. Uccidersi in una scuola è come uccidersi davanti ai cancelli di una fabbrica: il suicidio diventa un gesto pubblico, eclatante, che coinvolge un’intera comunità, tra l’altro composta in questo caso per lo più da minori. A trovare il corpo del professore, infatti, impiccato a una corda sulla spalliera della palestra, sono stati i suoi stessi alunni, che hanno dato subito l’allarme. Le loro urla hanno richiamato altri professori e altri alunni. Tre ragazzine si sono sentite male per lo choc e sono state soccorse dai medici. È troppo azzardato ipotizzare allora che sia stato proprio quel posto - la scuola - una della cause che ha spinto il docente a togliersi la vita? Perché scegliere, altrimenti, il luogo di lavoro per mettere in scena la propria morte? La scuola, probabilmente, è stato per lui il «palazzo in fiamme» di cui scriveva Wallace. E seppure non fosse così (si è parlato di probabili gravi motivi di salute), è tuttavia così che si presta a esser letto. Non è un caso che le ultime indagini riportino dati allarmanti sulle conseguenze che questo mestiere provoca in chi lo pratica: il cosiddetto «burnout» (e torniamo, non a caso, alla metafora delle fiamme, dell’incendio) riguarda quasi il 70% dei docenti (sono cifre ricavate da un’indagine condotta a partire dal 2015 dall’Osservatorio nazionale salute e benessere dell’insegnante dell’università Lumsa di Roma), mentre un docente su due confessa di sentirsi un fallito. È sconvolgente, se pensiamo che a queste persone così esposte allo stress psicofisico è affidata l’educazione dei nostri figli, bambini e adolescenti. Ma in che cosa consiste il burnout? È una patologia che generalmente segue fasi ben precise: dall’iniziale entusiasmo si passa alla stagnazione, poi alla frustrazione, poi all’apatia, fino ad arrivare a sentirsi letteralmente «bruciati» dal lavoro (chiunque abbia un po’ di esperienza di sala docenti riesce a identificare al primo sguardo quale delle quattro fasi ciascun collega stia attraversando). Le cause sono risapute: il carico di impegno burocratico sempre più asfissiante, lo stipendio del tutto inadeguato, la caduta sociale del ruolo dell’insegnante, un contesto spesso difficile, se non ostile (i casi di aggressione da parte di alunni e genitori sono all’ordine del giorno), e un generale senso di abbandono. Ma se la letteratura scientifica considera quella degli insegnanti tra le professioni più predisposte allo sviluppo di questa sindrome, come farvi fronte? Innanzitutto occorrerebbero criteri di selezione professionale per valutare rigorosamente le attitudini psicologiche dell’aspirante docente, che poco hanno a che fare con le competenze e le conoscenze. Non tutti possono fare gli insegnanti, inutile raccontarci bugie: è un lavoro che richiede una vera e propria vocazione pedagogica, motivazioni particolarmente forti, empatia e sintonia con il mondo dei giovani, equilibrio e soprattutto autorevolezza.

Ma non basta questo. C’è bisogno anche di una rete di supporto all’interno delle scuole: uno sportello d’ascolto per i problemi a cui si può andare incontro quotidianamente. E di inserire la professione nella lista dei lavori usuranti per un accesso anticipato alla pensione o almeno per un cambio di mansione nello stesso ambito scolastico (non è più concepibile, con il gap generazionale che stiamo vivendo, che i docenti possano arrivare ad avere la stessa età dei nonni e delle nonne dei loro alunni). Ma soprattutto è il momento di ridare la giusta riconoscibilità sociale alla figura del docente, cominciando con l’adeguare gli stipendi a quelli della media europea. Ecco: selezione attitudinale, supporto formativo e potere contrattuale sono i tre prerequisiti essenziali per iniziare a progettare la scuola come un luogo che contenga il disagio piuttosto che amplificarlo, che accolga la vita, in tutte le sue contraddizioni, e non la depressione, che educhi alla curiosità e al piacere della conoscenza e non all’apatia. Se è vero, allora, che il chicco di grano che muore produce molto frutto, l’unico senso che possiamo dare all’insensata morte del docente di Brescia, qualunque siano state le sue ragioni, è quello della speranza: che riesca a risvegliare tutti da quell’indifferenza collettiva che, da decenni ormai, ha ridotto la scuola pubblica come un palazzo in fiamme.
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