Se abbattere le Vele non ripulisce le coscienze

di ​Adolfo Scotto di Luzio
Sabato 22 Febbraio 2020, 23:00 - Ultimo agg. 23 Febbraio, 07:00
3 Minuti di Lettura
Le Vele di Scampia sono all’ordine del giorno del caso Napoli da almeno quarant’anni diventando, nel corso di questa lunga permanenza al centro della coscienza riflessa della città, un potente veicolo simbolico. Sotto le loro moli imponenti sono passate in questi anni molte cose. L’ambizione modernizzatrice, innanzitutto. L’aspirazione cioè ad aggiornare la scena del dramma napoletano potendo finalmente disporre di una banlieue sullo sfondo della quale ambientare intrecci e psicologie di una umanità lontana anni luce dalla cornice urbanistica della vecchia Napoli e dai suoi stereotipi linguistici. La stessa audacia progettuale, l’astratta utopia comunitaria che essa incorporava, quell’idea di fare dei legami sociali una funzione della logica compositiva del manufatto, del modo in cui venivano ad organizzarsi volumi e spazi e, di conserva, i rapporti tra le persone - valori architettonici messi al servizio non delle aspirazioni residenziali e vacanziere di agiati abitanti della Costa azzurra, bensì di un quartiere popolare alla periferia nord della terza città d’Italia -, tutto questo sembrava permettere di pensare Napoli in termini nuovi. Non più la vecchia e decaduta capitale di antico regime, ma una città che dopo il vano tentativo di farsi industriale durante il Novecento poteva ora aspirare al rango di metropoli postmoderna. Niente di tutto questo è accaduto. 

Come ha ricordato venerdì scorso su questo giornale Cherubino Gambardella, sulla scena della demolizione c’era spazio solo per le aspirazioni, per altro degnissime di rispetto, dei vecchi residenti ad un’abitabilità certo meno eroica ma anche priva di forma. Della vecchia ambizione di progettare per il popolo sulla base di valori estetici inconfondibili non è rimasto più niente. 

E con essa se ne è andato anche il rilievo di Napoli per un fronte avanzato di politica e cultura. Un’assenza di progetto nella quale si è espressa la progressiva marginalizzazione politica della città. In questo dileguare di idee le Vele sono così diventate un comodo alibi. Il terremoto e la successiva colonizzazione camorristica hanno fatto di Scampia e dei suoi imponenti palazzi triangolari una «non-Napoli», un codice esorcistico al quale affidare il compito di «rappresentare» tutto il negativo. 

La zona di espansione a Nord della città è diventata allora il suo limite, la soglia oltre la quale Napoli si trasformava nel proprio rovescio infernale. Abbattere le Vele è diventata così l’ossessione dei nuovi regimi politici insediatisi a Palazzo San Giacomo a partire dagli anni Novanta: Bassolino, prima; De Magistris, poi. Il futile tentativo di chi odiando la propria immagine finisce per sparare allo specchio non potendo fare altro. Pochi altri oggetti architettonici come i manufatti di Franz di Salvo all’inizio degli anni Sessanta hanno catalizzato tanta avversione fino a farne il totem per eccellenza di cui sbarazzarsi. Trasformati in un segno, si è pensato bene di cancellarli nella speranza che la loro scomparsa fosse anche quella della cosa che il segno rappresentava: degrado, abbandono istituzionale, droga e violenza criminale. Proprio il segno è diventato il modo attraverso il quale Scampia si è iscritta nell’immaginario contemporaneo. Se all’inizio era l’ambiente di una nuova esperienza umana, le spesso evocate in questi giorni Occasioni di Rosa; dopo, il quartiere con i suoi monumenti architettonici è diventato il luogo riconoscibile di una fiction globale, un po come le strade di San Francisco o il ponte di Brooklyn, scenografie immediatamente evidenti al pubblico, ma che poco e nulla hanno più a che fare con una vicenda storica concreta di persone in carne ed ossa. 

Da non-Napoli, Scampia è così diventata più banalmente uno dei molti scenari dell’immaginario globale sospesi in uno spazio senza contesto. Dentro questo spazio e dentro la sua logica narrativa, oggi si vuole cancellare il segno ignorando le sue ragioni estetiche, i suoi valori architettonici, l’idea di città che rappresentavano e le spinte politiche che l’avevano sostenuta. Dentro il progetto delle Vele c’era una storia, l’Italia del centro sinistra, i suoi strumenti operativi, la Cassa per il Mezzogiorno. Molto sapere e molte speranze, molte illusioni, molti errori. Non è cancellando il passato che vi si pone rimedio. Né tanto meno si ricavano gli elementi per pensare il futuro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA