Solidarietà per i profughi non legata all'emozione

di Titti Marrone
Giovedì 26 Maggio 2022, 00:00 - Ultimo agg. 06:00
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L’empatia, quella vera, è una dimensione interiore difficile ma può anche essere bifronte. Si può manifestare come urgenza che fa riconoscere le esigenze altrui come proprie, induce all’azione, sprona a prendere provvedimenti. È un “mettiamoci nei panni” che a volte s’insedia come sincera pulsione sull’onda di un’emotività fortemente sollecitata da avvenimenti esterni, e dal racconto che di questi ci viene fatto. Per dire: come resistere alle immagini di bambini ucraini prima costretti in rifugi sotterranei, poi in fuga con le madri dal loro Paese invaso dalle truppe russe? Infatti raramente si resiste, e spesso con le migliori intenzioni ci si annota l’Iban che scorre sul video per un bonifico, oppure si cerca tra gli indumenti smessi propri, o dei propri figli, qualcosa per confezionare pacchi-aiuto. O anche, per un paio di volte si ricorre alla spesa solidale di generi alimentari. Poi l’agenda delle urgenze della cronaca fa balzare, nei sommari dei Tg e sui siti d’informazione, altre notizie in primo piano, poi è la macchina stessa della comunicazione a segnalare una certa stanchezza del pubblico che dopo tre mesi ne ha abbastanza di reportage sulla guerra. Allora può succedere che anche l’empatia si affievolisca, e con questa l’interesse, sulle prime forte e pure sincero, per quelle persone. Insieme con lo scemare dello stesso impulso soccorrevole. 

È umano, perfino un po’ inevitabile. Capita anche per colpa nostra, degli organi d’informazione, a causa del meccanismo mediatico che spinge di volta in volta verso il proscenio dell’attualità un’area geografica, dimenticando tutte le altre. Ed è successo in questi giorni che il racconto di una guerra molto “telegenica” facesse mettere la sordina alle sofferenze di altri piccoli profughi neri di pelle e per niente “nuovi”, imbarcati sui soliti barconi visti diecimila volte: nel giornalismo americano c’è un termine, “wolf pack”, che vuol dire “branco di lupi”, per indicare le schiere di giornalisti soliti muoversi tutti assieme, accendendo i fari dell’informazione su una zona del mondo e oscurando tutte le altre. Raccontando una sola guerra tra le 169 che agitano in questo momento il mondo.

Ci sono parecchie spiegazioni e anche attenuanti per tutto questo, però storie come quella raccontata ieri su questo giornale da Pino Cerciello dovrebbero indurci a riflettere sull’empatia intermittente, o meglio la solidarietà a corrente alternata.

La storia è quella del Centro giovanile dei Giuseppini del Murialdo, una struttura di San Giuseppe Vesuviano solita accogliere profughi, fino a tre mesi fa soprattutto tra gli immigrati arrivati a Lampedusa con i barconi, più di recente dall’Ucraina. Specialmente donne e bambini. Dopo la “gara di solidarietà” di prammatica, con sfilata di politici e amministratori, sottoscrizioni, pacchi e raccolte di alimenti e vestiti, l’interesse si è affievolito, le donazioni si sono pian piano diradate fino a scomparire del tutto. Il che è un problema grande per il Centro, che si sente abbandonato a sé stesso e dove tutto si sta reggendo sul lavoro delle volontarie.

Allora, forse è soprattutto dopo, quando l’ondata emotiva prende a calare, che dovremmo “metterci nei panni”: come se la sbrigheranno quelle persone bisognose di tutto, d’un colpo lasciate senza aiuti? E soprattutto, che cosa sarebbe meglio fare per aiutarle? A volte basterebbe ascoltare chi se ne occupa per capire che non si tratta di cacciare in un bustone Ikea decine di abiti smessi e farglieli arrivare, ma che sono più utili altre cose nate dall’ascolto. E per esempio, dal Centro di San Giuseppe Vesuviano fanno sapere che servono mediatori culturali, o persone che possano aiutare a mettere a punto le domande necessarie per accedere ai fondi statali ed europei. Occorre qualcuno capace d’insegnare l’italiano, o a muoversi in una città complicata come Napoli, o che guidi nell’impresa veramente ardua di trovare un lavoro. 

Solidarietà è soprattutto mettere la persona al centro, e non in modo intermittente, non per alleggerirsi la coscienza ma per porre riparo anche in piccolissima parte all’ingiustizia sociale o geopolitica che confina alcuni ai margini di tutto. Nella nostra realtà, a spezzare la catena della solidarietà è un approccio culturale antico che stabilisce il primato dell’economia sulla società, dell’egoismo sul bene comune. Eppure, la Costituzione italiana fin dal 1946 è più avanti. Lo dice chiaramente all’articolo 2, che declina come indispensabile “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Significa rimettere al centro la persona umana, “mettersi nei panni” non a corrente alternata ma quando e come occorre. 

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