Dal lanciafiamme al coprifuoco, ma non si governa solo l'emergenza

di Adolfo Scotto di Luzio
Domenica 18 Ottobre 2020, 00:00
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Non è affatto detto che la mossa con la quale il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ha decretato la chiusura delle scuole (con la parziale eccezione di nidi e materne) sia una forzatura. Non è detto perché non sappiamo quello che accadrà nei prossimi giorni e le misure che dovranno essere prese.

Se le cose dovessero precipitare è molto probabile che si debba giungere ad una decisione simile a quella assunta in queste ore a Napoli: scuole inaccessibili, didattica a distanza. In questa prospettiva, la Campania, oggi una delle aree più colpite dal virus, avrebbe semplicemente anticipato le mosse del governo. D’altra parte basta fare un po’ di mente locale per valutare quanto la situazione su questo fronte appaia ingarbugliata. E non risparmi nessuno. Già oggi a Milano, come a Napoli, nelle scuole superiori si va in classe solo per una parte della settimana e, di fronte a starnuti e nasi che colano, le famiglie non sanno che pesci pigliare, figurarsi gli insegnanti. Detto questo, però, un qualche ragionamento bisogna pur farlo. Perché ciò di cui abbiamo discusso è vero in generale, non per forza in concreto. Il politico autoritario ama farsi giudicare sulla base dell’ostentazione della propria autorità e divide l’opinione pubblica tra coloro che apprezzano il pugno forte e chi invece lo detesta con tutto se stesso. Ma le cose non stanno in questi termini e ogni scelta va considerata innanzitutto in relazione al suo contesto specifico. In quella del Presidente della Regione Campania qualcosa non torna.

Perché De Luca ha deciso di chiudere le scuole? Perché sono un focolaio di infezione? In questo caso non tutte; ma allora, perché chiuderle indistintamente? Oppure, perché la mobilità degli studenti grava sul sistema dei trasporti, rendendo ulteriormente complicata la gestione di un apparato che fa acqua da tutte le parti? Appare evidente che si tratta di due questioni molto diverse e come tali da considerarsi separatamente. Diverse sono innanzitutto le responsabilità istituzionali. De Luca non può assumere i professori, certo; può, però, organizzare meglio il trasporto locale. La sua retorica è stata fino a questo momento di tipo interdittivo. Non potete fare questo, non potete fare quest’altro. Ma ora che siamo arrivati al dunque, appare evidente, in maniera desolante mi viene da dire, che siamo completamente impreparati. Soldi non spesi, acquisti non fatti. Nessuna programmazione. Nella strana versione del federalismo italiano, le Regioni rivendicano in continuazione più poteri, più margini di autonomia, ma quando poi si tratta di dare prova di capacità di pianificazione e governo del territorio, quello che appare è una incredibile assenza di leadership effettiva.

Chiudendo le scuole, il presidente della Regione Campania vuole apparire tempestivo, ma non ci dice se le scuole costituiscono una minaccia attuale da fronteggiare con strumenti di emergenza. Piuttosto, egli prova a nascondere il fatto che le scuole sono la tessera di un puzzle, la cui soluzione è largamente nelle mani del governatore stesso. Il quale, focalizzando l’attenzione sulla scuola, prova con ciò a stornare da sé responsabilità che al contrario appaiono tutte sue. Di fatto, la ratio della scelta di rendere inaccessibili le aule scolastiche per le prossime due settimane è semplice: chiediamo alla scuola di contribuire al rallentamento del contagio fermando gli spostamenti degli studenti. Ora questa frase andrebbe analizzata.

Diciamo la scuola, ma chi è realmente il destinatario della decisione della Regione? A scuola si va in tanti modi e restare a casa non è certo uguale per tutti.

Chi paga dunque il prezzo maggiore della chiusura? Chiudere le scuole, confinare gli studenti a casa e affidarli alla gestione di un professore attraverso la mediazione di un computer e del relativo collegamento ad internet, significa mettere tra il giovane e l’accesso all’insegnamento una serie di ostacoli spesso insormontabili. Al di là dei meriti della didattica a distanza, per beneficiare dei suoi vantaggi bisogna avere innanzitutto un computer e, cosa che più conta, godere di un buon collegamento. Dall’esperienza fatta nello scorso anno scolastico sappiamo che almeno il trenta percento delle famiglie italiane non possiede un computer e che meno del venti per cento ne ha in casa due o più. Il che significa che per moltissime famiglie italiane il computer quando c’è è conteso tra genitori in smart working e fratelli che devono fare lezione. Durante i mesi della didattica a distanza, 18 presidi su cento hanno dichiarato al Censis di non essere riusciti a raggiungere più del dieci per cento dei loro studenti. Al Sud le cifre relative a questa nuova forma di dispersione salgono al ventitre per cento. In quasi un quarto delle scuole meridionali, insomma la didattica a distanza ha perso per strada un numero considerevole di ragazzi. Se poi teniamo presente che nel Mezzogiorno d’Italia più che altrove, per molti bambini e adolescenti che provengono dagli strati più poveri della società il rapporto con la scuola è già di per sé molto precario, non dovremmo avere difficoltà a comprendere come ogni interruzione della routine scolastica significhi di fatto l’interruzione pura e semplice della scolarizzazione. Certo, l’Italia ha bisogno di una grande infrastruttura digitale, ma che intanto il diritto all’istruzione sia garantito a tutti nel modo più efficace possibile.

Ora, se questo diritto è compromesso, non perché la scuola è in sé un luogo pericoloso ma perché chi doveva organizzare le condizioni affinché la scuola fosse raggiungibile in sicurezza non ha fatto il suo lavoro, ebbene, le carte in tavola risultano molto diverse. E dimostrano una volta di più come il peggio di questo paese lo esprima la periferia, quel famoso territorio che è diventato la categoria politica dominante degli ultimi trent’anni e da dove invece non sono giunti che sprechi e inefficienza.

Se la scuola deve chiudere per ragioni di sicurezza non può che essere l’ultima a farlo, quando tutto ciò che si può concretamente disporre per assicurare ai cittadini condizioni minime di agibilità dello spazio pubblico sia stato in buona coscienza tentato. Il resto è solo la prova di una incredibile impreparazione (per non dire indifferenza alle condizioni concrete di vita delle persone). Mesi fa si poteva considerare il lanciafiamme una forma roboante per dire una cosa semplice: comportatevi bene. Oggi De Luca si è impossessato di una nuova parola d’ordine: coprifuoco. Ma non potrà cavarsela tanto facilmente. L’esperienza che abbiamo vissuto con il lockdown impone di garantire il funzionamento delle istituzioni in condizioni eccezionali fin dove è possibile. Francamente, arruolare autisti privati e i loro mezzi per portare a scuola gli studenti che altrimenti utilizzerebbero autobus e metropolitana non appare un’impresa titanica. Basterebbe un po’ di attenzione e a questo punto un senso elementare di decenza.

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