Enzo Tortora, quarant'anni fa l'arresto: ​«Accuse false, così lo dimostrai»

In un libro il racconto di Della Valle, avvocato e amico del conduttore televisivo

L'arresto di Enzo Tortora
L'arresto di Enzo Tortora
di Leandro Del Gaudio
Sabato 17 Giugno 2023, 00:00 - Ultimo agg. 15:55
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Pentiti paranoici a caccia di benefici carcerari, disponibili a sostenersi reciprocamente, un’inchiesta priva di riscontri, ma ancorata ad alcuni colpi ad effetto: come la storia di una paginetta di agendina telefonica nella quale spiccava il nome del presentatore più famoso in Italia; il riferimento ad alcuni centrini fatti da un detenuto per camorra, scambiati per parole in codice per celare traffici di droga; ma anche la strana testimonianza di una coppia di coniugi, pronti a vendere il finto scoop di uno scambio di cocaina e soldi in uno studio televisivo milanese. Sono questi gli ingredienti dell’inchiesta napoletana culminata il 17 giugno di 40 anni fa nell’arresto di Enzo Tortora, giornalista e presentatore al top della sua fama, che - ogni venerdì sera - inchiodava 26 milioni di italiani alla tv con il suo Portobello.

Un’inchiesta rivissuta tutta d’un fiato nel corso del libro-intervista del giornalista Francesco Kostner a Raffaele Della Valle, amico e legale di fiducia di Tortora, che - assieme ai colleghi Alberto Dall’Ora e Antonio Coppola - riuscì a capovolgere la montagna di accuse prive di riscontri, a capovolgere finanche la condanna a 10 anni di reclusione inflitta in primo grado dal Tribunale di Napoli all’allora imputato (divenne europarlamentare dei Radicali e rinunciò al mandato), per arrivare a una assoluzione in appello, confermata in Cassazione. Si intitola “Quando l’Italia perse la faccia” (Luigi Pellegrini editore) il libro intervista firmato da Kostner e Della Valle, un pugno nello stomaco, a partire dalla foto di copertina: quella in cui Tortora è accompagnato da due carabinieri, all’esterno dell’Hotel Plaza, dopo gli arresti all’alba del 17 giugno del 1983. Inutile dire, che - tra l’uscita dall’albergo e il cellulare dei carabinieri (maliziosamente parcheggiato al lato opposto della strada) c’era il meglio della stampa e delle tv nazionali. Tortora era uno degli 850 e passa indagati arrestati, nel maxiblitz contro la Nco di Raffaele Cutolo (una quarantina i casi di omonimia, poi rilasciati). 

Ma torniamo alle accuse mosse all’epoca a Tortora. È il 23 giugno del 1983, quando - dopo 5 giorni di cella - il presentatore incontra finalmente uno dei pm in carcere. Un interrogatorio che dura pochissimo, che parte da questo siparietto. Pm: «Riconosce questa donna in foto?». Tortora: «No, non saprei, di cosa si occupa?». Pm: «Fa la puttana». Ma chi era la donna che Tortora avrebbe dovuto conoscere? Si chiamava Nadia Marzano, affiliata al capo della mala milanese Francis Turatello. Secondo il pentito Pasquale Barra, ex killer di fiducia di Cutolo, nella casa meneghina della Marzano si sarebbe celebrato il rito dell’affiliazione di Tortora.

Ma il primo ad accusare il presentatore, era stato il pentito Giovanni Pandico. Fu lui a sostenere che Tortora rientrava in un gruppo di elite, gli affiliati ad honorem, gente famosa o dal volto pulito, che si occupavano di grandi traffici all’estero e in Italia.

E chi era Pandico? Era stato condannato in via definitiva per duplice omicidio, per un tentato parricidio e per calunnia. Avete capito bene, il principale accusatore era un patentato calunniatore, per altro indicato come “paranoico” nelle relazioni psichiatriche a cui si era sottoposto in cella. Subito dopo Pandico, arriva Barra, ‘o nimale (avrebbe ucciso Turatello e ne avrebbe mangiato parte del cuore), che introduce il nome di Tortora solo al 17esimo interrogatorio da pentito, per altro in assenza di un avvocato al suo fianco.

 

Secondo Barra, Tortora avrebbe partecipato a traffici di ingenti quantitativi di droga, recapitando la “roba” fino a Ottaviano. Cioè, uno degli uomini più famosi d’Italia sarebbe andato da Rosetta Cutolo, nel bunker della Nco, per portare droga, senza essere mai riconosciuto. Ma nei rimandi di accuse, arriva anche Gianni Melluso, il bello, che avrebbe addirittura ricordato che Tortora a volte lasciava l’auto con la droga incustodita e a rischio ladri. La verità è che tutti i pentiti - ha spiegato Della Valle - avevano la possibilità di leggersi a vicenda sui giornali, frequentando le stesse caserme e guardando la tv. Ed è la stessa Marzano a ricordare di aver incontrato Melluso in cella, che le avrebbe dato un aut aut: «Se confermi su Tortora - era il messaggio - allora sarai libera». Ma nel fascicolo entra - in modo angolare - anche la storia dell’agendina: a gennaio del 1983, nella casa di un mafioso di Lecce spuntò il riferimento a Tortora con due numeri accanto. In verità, il numero era di Enzo Tortona che, una volta chiamato a testimoniare, riconobbe i suoi numeri. E incalzato dal giudice, rispose: «Giudice, facite ‘o nummero...», per dimostrare la sua buona fede.

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Inutile dire che Tortora non sapesse nulla neppure della storia dei centrini, che un detenuto amico di Pandico aveva mandato alla Rai, nella speranza di essere citato dal presentatore, come emerso anche dalle lettere spedite all’ufficio legale. Mentre sollevò scalpore il racconto di una donna che, a luglio del 1983, si recò in uno studio televisivo milanese accanto al marito pittore, per donare un quadro in beneficenza. A un certo punto - spiegò - le si ruppe l’elastico delle mutandine e fu costretta ad appartarsi in un angolo, dove - sostenne (assieme al marito) - vide Tortora consegnare cocaina in cambio di soldi. Alcuni giornalisti, mesi dopo, smentirono questa testimonianza, ricordando che la donna faceva il giro dei giornali per vendere il presunto scoop. Conviene chiudere con le parole del giudice di appello Michele Morello, puntualmente ricordate da Kostner e Della Valle, che dopo l’assoluzione disse: «Per poter condannare Tortora avremmo dovuto affermare una infinità di bestialità».
 

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