Una morta perché si è rifiutata di cantare l’inno dedicato alla Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei. L’altra, dopo un gesto forte che aveva fatto parlare di rivoluzione e di sfida al regime, ha ritrattato. Con un mea culpa che, per la verità, lascia più di un dubbio sulle sue reali sorti. Sono le storie di Asra Panahi, studentessa di 16 anni, e di Elnaz Rekabi, campionessa dell’arrampicata sportiva di Teheran. Due bombe che deflagrano nel solco delle proteste che non si placano per l’uccisione di Mahsa Amini.
MASSACRATA A SCUOLA
Asra aveva 16 anni ed era al penultimo anno di liceo. È stato il sindacato degli insegnanti a far sapere ieri che la minorenne è morta perché, con altre compagne di classe, si è rifiutata di cantare un inno dedicato alla Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei. Le forze di sicurezza l’hanno vista, e l’hanno massacrata di botte, hanno raccontato i professori. Fino ad ucciderla. Più “fortunate” sono state alcune sue compagne di classe che se la sono cavata con un ricovero in ospedale, mentre altre sarebbero state arrestate. Il pestaggio è avvenuto il 13 ottobre scorso nel liceo femminile “Shahed” di Ardabil, nel nord-ovest dell’Iran, ma ovviamente non è stato confermato da alcuna fonte ufficiale. E in quest’ottica è apparsa persino grottesca la presenza sui canali della tv di Stato di un uomo, identificato come lo zio di Asra, che ha raccontato come la morte della nipote sia da ricondurre a una patologia cardiaca congenita.
DIETROFRONT
«È stato un contrattempo, un imprevisto, non volevo, non ho avuto il tempo di metterlo, il velo». Così, con una scritta bianca su sfondo nero, nella story del profilo Instagram di Elnaz Rekabi, si cerca di chiudere le polemiche e anche magari l’entusiasmo provocato dalla sua gara domenica a Seul ai campionati continentali di Asia di arrampicata sportiva.
Si è classificata quarta, ma si è parlato solo di lei.
Pochi credono che quelle parole siano davvero le sue. La famiglia e gli amici l’hanno sentita brevemente subito dopo la gara, quando lei si è limitata a informarli che si trovava con un responsabile della delegazione iraniana. Poi più niente, fino al messaggio su Instagram.
Secondo una fonte che ha parlato con il servizio in persiano della Bbc, la nazionale iraniana di arrampicata ripartita lunedì da Seul. Elnaz sarebbe stata invece attirata all’ambasciata iraniana di Seul, dove le avrebbero chiesto di consegnare passaporto e telefonino, «unico modo – le avrebbero promesso – per tornare sana e salva a casa». Secondo il portale dei dissidenti Iran Wire, però, Elnaz non solo non avrebbe scritto il formale testo sui social, ma sarebbe già in carcere, a Evin, dove sono convogliati i prigionieri politici.
L’ALLARME
«Le donne non dovrebbero mai essere perseguitate per come vestono, mai dovrebbero essere sottoposte a violazioni come la detenzione arbitraria o altre violenze per i loro vestiti» ha dichiarato ieri la portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, Ravina Shamdasani. E ha assicurato che seguiranno la situazione di Elnaz «molto da vicino».