Israele, l'ex consigliere Usa: «Adesso si rischia un triplo fronte E gli ayatollah sanno cosa li aspetta»

Charles Kupchan: non sottovalutare le possibili rivolte interne ad Israele

Israele, l'ex consigliere Usa: «Adesso si rischia un triplo fronte E gli ayatollah sanno cosa li aspetta»
Israele, l'ex consigliere Usa: «Adesso si rischia un triplo fronte E gli ayatollah sanno cosa li aspetta»
di Anna Guaita
Lunedì 16 Ottobre 2023, 01:33 - Ultimo agg. 17 Ottobre, 08:47
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Un vero rischio di escalation nella guerra può venire anche dall’interno di Israele, dalla Cisgiordania, se non proprio dal cuore del Paese. Ne parliamo con il professor Charles Kupchan, già consigliere per la sicurezza nazionale nell’Amministrazione Obama e in quella Clinton, e oggi docente di politica internazionale alla Georgetown University.

Professor Kupchan esiste un rischio di escalation di questa guerra, e come si manifesterebbe? 

«Tre sono le vie che porterebbero a un allargargamento del conflitto. La prima è quella di un intervento delle milizie filo-iraniane di Hezbollah dal Libano, ma anche dalla Siria, dove l’Iran ha ammassato i suoi agenti operativi.

Rischi esistono anche nella Cisgiordania, dove abbiamo già assistito a numerosi scontri fra palestinesi e israeliani, e infine vedo un pericolo insidioso all’interno di Israele stessa, perché scontri violenti li abbiamo già avuti, non dimentichiamo quel che è successo a Lod, una città mista ebraico-araba vicino a Tel Aviv, dove due anni fa si sono visti i peggiori episodi di violenza interna dalla fondazione del Paese nel 1948. Scoppierebbe una guerra civile».

L’influenza iraniana è ormai accertata, anche se pare che non sia stata Teheran a dare il via per l’operazione di Hamas. Cosa spinge l’Iran a destabilizzare il Medio Oriente?

«La loro politica estera non è dissimile da quella russa. Il loro obiettivo principale è proprio quello di destabilizzare, capovolgere lo status quo. Sono agenti del caos. Hanno milizie in Iraq, Siria, Libano, Yemen, Gaza e probabilmente anche in Cisgiordania. Estendono il loro potere con questo network di agenti. Ma non credo che abbiano intenzione di scatenare una guerra in larga scala. L’invio di una prima portaerei americana e ora di una seconda è un messaggio chiaro da parte dell’amministrazione Biden, e dovrebbe renderli cauti».

Vede qualche possibilità invece di distensione?

«In questo momento è difficile immaginare distensione, ma sono certo che pur nel mezzo di tutta la retorica belligerante, pur nel dolore per l’orrore subito e il senso di unità del Paese, dietro le quinte si prepara anche la diplomazia e si pensa al futuro».

Chi dovrebbe fare parte di un’azione di diplomazia?

«Gli stessi che stanno lavorando per facilitare gli aiuti umanitari, gli Usa, la Turchia, l’Egitto, il Qatar. I loro tentativi di creare zone sicure per la popolazione civile, di aprire il valico di Rafah, di convincere Israele a mostrare cautela nella rappresaglia, sono iniziative che possono proseguire verso un vero sforzo diplomatico di pace».

Secondo lei c’è qualcuno al mondo oggi - che sia un Paese o un’organizzazione mondiale come l’Onu - che sia pronta a guidare Gaza nel futuro? 

«No. Questa è una risposta facile. Ma non vedo neanche Israele lasciare Gaza di nuovo indipendente. Lo hanno già fatto e cosa hanno ricevuto in cambio? Missili e bambini sgozzati».

 

Che futuro vede allora?

«L’unica speranza che ho è che i palestinesi e gli israeliani guardino dentro l’abisso che hanno creato e capiscano che hanno bisogno di cercare un’alternativa. Ma dobbiamo ricordare che questa guerra spinge indietro le possibilità di pace tra le due parti, possibilità che in verità già erano tramontate, in parte per colpa degli Accordi di Abramo».

Ma come, gli Accordi di Abramo non dovevano portare la pace in Medio Oriente?

«Sono invece la ragione per cui i palestinesi si sentono dimenticati, lasciati indietro. I loro stessi fratelli, quelli che dovevano sostenerli e aiutarli, si sono schierati con Israele. Anche l’Arabia Saudita stava per firmare l’accordo con Israele. E questo avrebbe significato che il centro di gravità del mondo arabo sarebbe mutato e la causa palestinese sarebbe stata del tutto dimenticata. La crudele ironia di questa storia è che la regione sembrava progredire verso un futuro diverso di convivenza fra arabi e ebrei. Ed è la ragione della rabbia dei palestinesi. Che rifiutano lo status quo adottato da Israele, uno stato di paralisi senza diritti».

Cosa deve fare la comunità internazionale?

«Se Israele riesce a schiacciare Hamas, bisognerà tutti spingere per una soluzione politica di lunga durata. Non possiamo fingere di non vedere. Il diritto di Israele di esistere, difendersi e punire simili brutalità ti spinge al suo fianco. Poi vedi l’altra faccia della medaglia, la sofferenza decennale dei palestinesi, sofferenza fisica e psichica… Non è una questione nera o bianca. È un dilemma morale difficile, che se non viene risolto continuerà a produrre conseguenze tragiche».
 

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