Nobel contro Nobel, Malala attacca San Suu Kyi: «Perché non condanna il massacro dei Rohingya?»

Nobel contro Nobel, Malala attacca San Suu Kyi: «Perché non condanna il massacro dei Rohingya?»
Martedì 5 Settembre 2017, 13:45 - Ultimo agg. 6 Settembre, 13:41
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«Non è il potere che corrompe, ma la paura. Il timore di perdere il potere corrompe chi lo detiene e la paura del castigo del potere corrompe chi ne è soggetto». Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, leader de facto del governo del Myanmar, lo ha sempre ripetuto. Ma mai come ora "La Signora, com'è comunemente chiamata in segno di rispetto, sembra aver tradito il suo principio più famoso. Il suo silenzio di fronte alla repressione della minoranza musulmana dei Rohingya, nello stato di Rakhine, sta sollevando critiche internazionali e dopo l'appello di molti pluripremiati Nobel, ieri è stata la giovane pachistana Malala Yousafzai attraverso Twitter a bacchettare" l'eroina dei diritti umani. «Negli ultimi anni ho condannato più volte questo tragico e vergognoso trattamento - ha scritto sul suo profilo -. Sto ancora aspettando che la mia collega premio Nobel Aung San Suu Kyi faccia lo stesso». 

Alcuni attivisti per i diritti umani indonesiani, il più grande paese musulmano del mondo, hanno addirittura invitato il comitato per l'assegnazione del Nobel a ritirare il premio alla leader birmana. Ma il comitato (formato da cinque componenti scelti dal parlamento norvegese) non ha mai revocato un premio e questo non avverrà neanche nel caso di Aung San Suu Kyi, ha dichiarato l'ex membro Gunnar Stalsett. «Il principio che seguiamo è che la decisione non è la proclamazione di un santo - ha detto Stalsett - Quando la decisione è stata presa e il premio è stato assegnato, termina la responsabilità del comitato».

L'ultima violenza in Myanmar è iniziata il mese scorso quando alcuni combattenti Rohingya hanno attaccato 30 avamposti militari birmani tra stazioni della polizia e basi di frontiera. Da allora sono morte almeno 400 persone, compresa una dozzina di uomini delle forze di sicurezza. Ma Suu Kyi, che in una rara intervista alla Bbc ha fermamente negato che sia in corso una pulizia etnica, continua a rimanere in silenzio. Secondo alcuni diplomatici e analisti l'ex attivista «vive in una bolla», circondata dalle informazioni che arrivano da un piccolo gruppo di consiglieri fidati, molti dei quali condividono i pregiudizi contro i Rohingya, considerati immigrati clandestini del vicino Bangladesh. 

Due le teorie dominanti che cercano di spiegare il suo silenzio sulle accuse di violazioni dei diritti.
La prima è che per mantenere il proprio potere personale e garantire il futuro dei buddhisti di etnia Bamar, che rappresentano la maggioranza nel paese, sia disposta a sacrificare le minoranze etniche alle ambizioni dei militari. La seconda è quella che chi chiede alla
Signora di fermare le attività dei militari a Rakhine non riesce a cogliere la complessità della condivisione del potere e semplicemente non si preoccupa di farlo. Parlare contro i generali potrebbe anche provocare un colpo di stato e, per essere onesti, Suu Kyi non ha alcun controllo sui militari, dal momento che la costituzione consente all'esercito di prendere il controllo in caso di crisi nazionale. Tuttavia, se Suu Kyi non ha influenza diretta sui militari, la sua influenza su gran parte della popolazione rimane forte. Senza criticare direttamente i generali, le sue parole potrebbero fare molto per contrastare il sostegno alle azioni più brutali.
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