Ucraina: «Centinaia di Bucha, il mondo ​non ne parla ma è un orrore infinito»

Ucraina: «Centinaia di Bucha, il mondo non ne parla ma è un orrore infinito»
di Angelo Scelzo
Domenica 8 Maggio 2022, 08:26 - Ultimo agg. 9 Maggio, 07:09
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«Esistono centinaia di Bucha senza che il mondo sappia». Don Witalij Uminski, 48 anni, sacerdote da 25, direttore della Fondazione Caritas-spes della diocesi di Kiev Zytomierz, conosce forse più di tutti le retrovie di un orrore non ancora segnato sulle mappe, forse coperto dal silenzio della sua stessa efferatezza. Anche le guerre hanno una loro periferia, dove però la violenza non sempre arriva attutita. È stato così in una serie di villaggi in Polyssia, ai confini con la Bielorussia, case sparse nel giro di centinaia di chilometri, tra boschi, strade sterrate e silenzio. I segni della devastazione diradati e sparsi su un'immensa campagna con qualche casa ancora in piedi.

«In una di queste - racconta Uminski - abbiamo fatto un incontro sconvolgente. Un uomo a terra, sul pavimento della sua casa, quasi agli ultimi istanti di vita. Stava morendo per fame. Chissà da quanti giorni era lì, solo, come molti anziani della zona lasciati dai loro figli chiamati alle armi, e presi dal terrore di uscire all'aperto».

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Bucha, Borodyanka, Irpin... dietro a queste capitali dell'orrore, la storia delle vittime presenta capitoli ancora più agghiaccianti.
«In questi luoghi è avvenuto tutto il peggio possibile. Il silenzio è stato come un lenzuolo di morte che ha coperto crimini difficili anche da immaginare. Quando i russi si sono ritirati dai nostri villaggi, abbiamo per prima dovuto chiudere gli occhi. Bambini uccisi, cinque a Mariyanikva, appena usciti dal rifugio della scuola. Non è stato possibile neppure seppellirli. E poi il tormento delle mine. Disseminate dappertutto. Perfino nei frigoriferi. Quando in un villaggio vicino Zirka ho incontrato un mio confratello, mi ha detto che veniva dal funerale di un contadino appena rientrato al lavoro. Il suo trattore era esploso su una mina».
Il campo d'azione di don Witalji, soprattutto quando s'inoltra verso i voivodati di Chernihiv e Zhytomyr, verso la Bielorussia, ha poco in comune con quello di altri confratelli, che a capo delle diverse Caritas di un paese investito dalla guerra, provvedono ai numerosi e svariati compiti dell'assistenza.

Anche lui, insieme al gruppo: di volontari, può trovarsi a distribuire viveri e vestiario, o venire incontro alle mille esigenze di chi non ha più un tetto e cerca riparo nei rifugi o la strada per una via di fuga dall'inferno. È un lavoro che, peraltro, ha il suo epicentro a Leopoli, ai confini con la Polonia, dove continuano a confluire tutti gli organismi di aiuto e assistenza. A lui, guida della Caritas ucraina, denominata Spes, viene ordinariamente chiesto altro: prendersi cura delle retrovie, laddove persino la guerra, stenta talvolta a trovare la strada.

Ma quando la trova non finisce mai di infierire...
«In tutti i villaggi si è scatenata la caccia ai reduci della guerra in Donbass. Quando non sono morti, ai bambini la morte è toccata vederla con i loro occhi. Genitori ammazzati, anziani cacciati dalle loro case. Sevizie, ruberie, devastazioni. Abbiamo visto e conosciuto l'inferno. E abbiamo continuato a vederlo negli occhi di chi ci veniva incontro per un aiuto. In un villaggio vicino alla Bielorussia, un gruppo si è fatto avanti implorando, con le lacrime agli occhi: voleva dirci che esisteva; che il mondo non si dimenticasse di loro. Fotografateci, gridava qualcuno. Date la prova che esistiamo».

La guerra e la condanna di un silenzio irreale. Un mondo fermo segnato da eroismi che forse non verranno mai alla luce. Ma quello di un bambino di sette anni, immobilizzato su una sedia a rotelle, che continuava a spingere la nonna che aveva cura di lui e dei suoi tre fratellini a scappare e mettersi in salvo, lasciando lui sul posto, don Witalji non ha potuto dimenticarlo. Era ormai malridotta la sedia a rotelle e quando, insieme a un paio di nuove stampelle, il piccolo-eroe se l'è vista consegnare ha speso un sorriso che ha dato luce anche alle macerie intorno. Quando i vescovi ucraini hanno creato la Caritas spes, appena proclamata l'indipendenza dell'Ucraina, avevano ben presente il raggio d'azione: la cura delle persone disabili, soprattutto i bambini, il grande numero di orfani, i problemi del disagio mentale, oltre alle incombenze più tradizionali della mancanza di lavoro e delle povertà correnti. Ora su tutto questo, la scure della guerra, le vittime, il collasso delle strutture pubbliche, le medicine che non si trovano, l'enorme flusso di profughi. E intorno alle campagne di Kiev, tra le cento Bucha scoperte o ancora nascoste, il cibo che scarseggia, l'acqua che, per le dighe saltate in aria, invade le e allaga le strade ma manca nelle case. «La guerra è questo», conclude. «La più insensata delle follie. Tanto più quella d'aggressione».

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