Nessuna compassione, nessuna empatia. Neanche finte, nemmeno di facciata.
Donald Trump scarica George Floyd, nega il razzismo sistemico e tira dritto lungo il sentiero di una linea durissima tanto cara ai suoi elettori: «legge e ordine».
Archiviato il funerale dell’afroamericano morto durante un fermo di polizia a Minneapolis, il suo slogan è e con ogni probabilità resterà dunque questo, almeno fino al 3 novembre.
La sinistra democratica inorridisce di fronte a tanta indifferenza, la destra repubblicana quasi se ne compiace.
Per quanto i conservatori si sforzino di darsi un tono più umano, e per quanto il loro fronte talvolta si sfaldi (Mitt Romney si è unito alla marcia dei manifestanti), la verità è che Trump e la sua base continuano a parlare la stessa lingua.
Nulla di nuovo sotto il sole d’America, insomma: a ogni isterismo riformista corrisponde un ghigno immobilista.
Ribrezzo contro approvazione.
Con il primo che fa più rumore, mediatico e non.
Che grida in piazza, che invade le strade, che affolla televisioni e giornali di tutto il mondo.
Con la seconda che aspetta invece in silenzio il momento del voto.
Una maggioranza, “silenziosa” appunto, che a Trump è già valsa la storica vittoria di quattro anni fa.
Il razzismo non è certo un’invenzione dei giorni scorsi.
Almeno su questo, sembrano essere tutti d’accordo.
Qual è allora il punto?
Il punto è paradossalmente molto semplice.
I democratici, capitanati più da Obama che da Biden, vogliono farne l’epocale questione di fondo delle elezioni 2020.
Trump, senza pensare neanche troppo ai repubblicani, abituato da tempo a giocare da solo e anzi pure contro di loro, vuole invece cavalcarla un altro po’, fino a vincere di nuovo.
Nessuna compassione, nessuna empatia. E nessuna sorpresa.
Un presidente che non hai mai avuto l’ambizione di unire, ma, viceversa, quella forte di dividere.
E, stando alla logica brutale ma fondata della proverbiale locuzione latina, conquistare.