Cofferati: «Patto sociale modello '93 ma oggi parti più divise»

Cofferati: «Patto sociale modello '93 ma oggi parti più divise»
di Nando Santonastaso
Martedì 28 Settembre 2021, 08:12
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Cofferati, il Patto sociale proposto da Draghi a imprese e sindacati sembra richiamare quello del '93, promosso dall'allora premier Ciampi che ebbe risultati importanti per il Paese. Ma è davvero così?
«Come annuncio parrebbe proprio la riproposizione del modello del 93 dice Sergio Cofferati, già segretario generale della Cgil e in quegli anni al fianco dell'allora segretario Bruno Trentin -. Ma in realtà il momento politico e le condizioni generali sono abbastanza diverse. L'unica cosa che assomiglia al 93 è che anche allora stavamo appena uscendo da una crisi enorme, in quel caso economico-finanziaria, per la quale servirono segnali forti. Il dolorosissimo accordo stipulato l'anno prima dal governo Amato e dalle parti sociali prevedeva molti contenimenti, a partire dai salari con il blocco che ne seguì fino al controllo sui depositi bancari. Oggi che stiamo uscendo da una crisi di carattere completamente diverso ma non meno grave e carica di incognite come la pandemia c'è bisogno di una ripresa economica che compensi anche i sacrifici imposti dal Covid. E la logica del Patto sociale torna di attualità».

Perché ebbe successo allora il metodo Ciampi?
«Il sistema introdotto da Ciampi fu una straordinaria novità sul piano delle relazioni industriali: il suo fondamento era il confronto preventivo su quello che poi è diventato il Documento di economia e finanza, lo strumento principe con il quale governo e Parlamento gestivano l'economia nazionale.

Veniva presentato a luglio, diventava oggetto di confronto tra governo, imprese e sindacati fino alla fine di settembre poi approdava in Parlamento: se si raggiungeva una convergenza, le Camere potevano arricchirlo ma non stravolgerlo. Se l'accordo non c'era, le Camere esercitavano tutta la loro autonomia per cercare la migliore soluzione possibile. La grande novità fu di assegnare responsabilità attraverso il confronto preventivo. Lo stesso modello fu applicato per il rinnovo dei contratti nazionali di lavoro: la trattativa preventiva veniva fatta prima che scadessero. E, non a caso, per quello dei meccanici, la categoria più forte tra i lavoratori, il nuovo contratto venne sottoscritto nel '94 senza un'ora di sciopero, Molti lo hanno dimenticato. Con quel metodo si difese il salario dall'inflazione come prima non capitava: se questo è quello che vuole fare anche Draghi lo capiremo».

Lui, Draghi, è sicuramente un Ciampi boys. Nel '93 era già Direttore generale del Tesoro, quel metodo lo conosceva bene.
«Guardi, io penso che quando Ciampi fece quella proposta, soprattutto per quanto concerneva il coté economico-finanziario, Draghi ne fu informato e coinvolto. Non stava certo da un'altra parte. Oltre tutto, il rapporto personale tra loro due era ottimo. Una parte dei contenuti di quell'intesa passò senza alcun dubbio anche all'esame di Draghi».

Ma che hanno in comune oggi imprese e sindacati rispetto ad allora?
«I rapporti tra le parti sociali nel '92-'93 erano a volte duri ed espliciti ma positivi, ognuno nel rispetto del suo ruolo. Gli uni e gli altri lavoravano ad una crescita economica che migliorasse le condizioni dei cittadini e consentisse al Paese di ridurre alcuni parametri come l'inflazione e il debito e di entrare in quelli della moneta unica. Oggi non ci sono elementi di interesse comune così forti, anche se io penso che la crescita economica di un Paese dovrebbe essere considerata comunque da tutti come l'obiettivo principale. Mi pare che anche sul piano ideale in questi ultimi anni non ci sia stato nulla che assomigli alle sfide di quella stagione, con l'Europa e la moneta unica da realizzare».

Eppure, i partiti oggi sembrano fiutare l'aria di un ritorno alla concertazione.
«Non so se hanno capito male o fanno finta. I partiti se vedranno messi in discussione il loro ruolo e la loro autonomia li difenderanno, ma senza contestare il modello che potrebbe nascere attraverso il confronto sistematico tra produttori, imprese e lavoratori, che va a vantaggio del Paese. Non è una gara a chi interloquisce prima e meglio».

Ma il Patto, restando al modello '93, andrà definito sul Def e sulla legge di Bilancio o fare riferimento anche al Pnrr?
«Indubbiamente il Def è il riferimento per modalità di rapporti e merito del confronto. Poi il Pnrr deve dare sostanza a quelle priorità: non si può fare il Def con un orientamento e poi dare le risorse del Pnrr in ordine sparso o in direzione opposta. Naturalmente questo non significa che il governo si blocca se il sindacato non fa l'accordo: anzi, un altro grande vantaggio della discussione preventiva è che permette di evitare conflitti sbagliati. In quegli anni si è potuto ridurre il conflitto senza alcuna legge limitativa o decisioni che potessero contraddirlo».

Ma su quali basi oggettivamente si potrebbe costruire un'ipotesi di Patto sociale?
«Ci sono almeno tre cose indispensabili e parallele, senza confondere metodo e merito. La prima: una legge sulla rappresentanza sindacale, perché se vuoi sconfiggere i contratti pirata devi avere una legge che stabilisca come si misura la rappresentanza e come si approvano le intese che essa sottoscrive. La seconda: ci vuole, in questo quadro, anche una soglia che valga per tutti ed è il salario minimo. La terza: ci vuole un nuovo Statuto dei diritti dei lavori e dei lavoratori. Quello del 1970 resta una parte della nostra storia, ma il mondo del lavoro e l'assetto sociale che ne consegue hanno molte novità rispetto ad allora che vanno riconosciute e tutelate. Tutto questo interessa anche agli imprenditori: se le condizioni che regolano l'economia e la finanza garantiscono il lavoro sul piano della qualità e della quantità adeguate è interesse del Paese, non solo dei sindacati».

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