Un passaggio obbligato dal protocollo, si dirà. Ma di grande significato politico. Questa sera il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario Alfredo Mantovano saliranno gli scaloni del Quirinale. Li attende Sergio Mattarella, a cui porteranno la bozza definitiva di una riforma che promette di rivoluzionare la giustizia italiana e riscrivere interi articoli della Costituzione. E per questo ha bisogno più di altre di un lasciapassare del Capo dello Stato.
IL TESTO
Separazione delle carriere. Sono le tre parole che racchiudono la grande promessa elettorale del centrodestra entrato nella stanza dei bottoni due anni fa. Dividere per sempre le carriere di giudici e pm, impedire a un magistrato di vivere due vite in una: quella di chi indaga e di chi emette sentenze. Un vecchio sogno di Silvio Berlusconi, rimasto nel cassetto e tirato fuori ora da Giorgia Meloni, alla vigilia delle Europee. Un incubo per gran parte della magistratura associata, in trincea contro la riforma come il grosso delle opposizioni, Pd e Cinque Stelle in testa.
Ma torniamo alla visita al Quirinale di Nordio e Mantovano, questa sera alle 19. Concordata con la premier, è un passaggio chiave per sbloccare il testo che atterrerà in Consiglio dei ministri prima delle Europee. Forse il 3 giugno e non già domani, per dare al presidente della Repubblica la possibilità di approfondire il testo ed eventualmente fare dei rilievi. I tempi sono politicamente maturi. Forza Italia e il suo leader Antonio Tajani aspettano con ansia il primo via libera di una riforma che scava un solco tra giudici e pm, battaglia centralissima dell’epopea berlusconiana.
Tuttavia la materia è incandescente. Il Ddl costituzionale, su cui la premier ha voluto apporre la sua firma insieme a quella di Nordio per sottrarre il testo al tiro alla fune elettorale degli alleati al governo, interviene sul vero centro di potere della giustizia italiana, il Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno che decide vita morte e miracoli delle toghe, promozioni, sanzioni, trasferimenti, nomine.
Nella bozza finale, a quanto risulta al Messaggero, il Csm rimarrà uno solo, dotato però al suo interno di due sezioni distinte, per gli inquirenti e i giudici. Tra le novità affinate dopo lunghe trattative - e con un continuo dialogo con gli uffici legislativi del Colle - l’istituzione di un’Alta Corte per i ricorsi contro i provvedimenti disciplinari del Consiglio superiore. E ancora, un altro pilastro è il nuovo sistema elettorale per scegliere i membri togati del Csm (i due terzi): i venti magistrati saranno scelti con un sorteggio secco. Uno schiaffo alle correnti e alla lottizzazione politica che puntualmente scandisce la scelta delle toghe da riunire intorno al tavolo circolare di Palazzo dei Marescialli.
È un compromesso, il testo pronto ad atterrare in Cdm, non c’è dubbio. Né ai piani alti del governo si dà per scontato il lasciapassare del Quirinale su una riforma che cambia volto alla magistratura italiana e al suo massimo organo, peraltro presieduto proprio da Mattarella. In più occasioni, nei mesi scorsi, dal Colle è filtrato l’appello a non accendere lo scontro tra poteri dello Stato, le tensioni tra governo e toghe puntualmente riemerse da quando la destra è a Palazzo Chigi: migranti, Pnrr, giustizia.
Una moral suasion che Mattarella, con cui Meloni ha un rapporto più che cordiale e scandito da incontri regolari al Quirinale, ha esercitato senza togliersi la veste di arbitro. Difendendo «l’autonomia» delle toghe ma anche richiamandole, lo ha fatto a marzo scorso, al dovere dell’ «imparzialità». Il clima resta teso. «Di fronte a pronunciamenti come quelli che abbiamo ascoltato nel congresso dell'Anm, secondo cui la separazione delle carriere farebbe scatenare l'apocalisse, è difficile affrontare un confronto», si è sfogato ieri Mantovano a Sky TG24. «Nei fatti, la separazione delle carriere già c’è», ha provato a smorzare. E lo stesso ha fatto Nordio, alla vigilia della gita al Colle: «Il testo manterrà l’assoluta indipendenza e autonomia del pubblico ministero rispetto a tutti gli altri poteri e non comporterà minimamente una qualsiasi forma di contatto tra pm e potere esecutivo».
Mattarella si riserverà di studiare con attenzione la riforma, senza intervenire, e del resto sarebbe inconsueto, su una bozza che avrà solo una bollinatura politica in Cdm e dovrà poi affrontare un lungo iter parlamentare. La separazione delle carriere, ha promesso Meloni ai suoi, in primis a Tajani, si farà. Il diavolo è come sempre nei dettagli.
Ed è su questi che monta l’irritazione di un fronte iper-garantista e meno dialogante con le toghe, non solo dentro Forza Italia, che parla di una «riforma dimezzata». Non toccherà l’obbligatorietà dell’azione penale, su preciso ordine di Meloni. Sarebbe stata una dichiarazione di guerra ai pm, ragionano a Palazzo Chigi. Proprio quel che la premier vuole evitare alla vigilia del voto su cui ha scommesso la sua legacy politica a palazzo e mentre un’inchiesta giudiziaria sta terremotando il centrodestra in Liguria, dove il governatore Giovanni Toti è ancora agli arresti. Calma e gesso, è la direttiva affidata da Meloni a Nordio e ai responsabili giustizia dei partiti in maggioranza nelle riunioni che si sono succedute in queste settimane.
IL COMPROMESSO
Eppure le divergenze restano. Ad esempio, la riforma non affronterà il grande tema del concorso per l’accesso, oggi unico per pm e giudici: tutto rimandato a una futura legge. Sul punto tace e continuerà a tacere la Carta. E l’Alta Corte? Il tribunale terzo si occuperà solo di atti disciplinari. Ma non accoglierà ricorsi contro tutti gli altri atti del Csm: delibere amministrative, nomine. Accortezze richieste dalla premier, con la mediazione di Mantovano, ex giudice che tiene il filo con il Colle, per allentare lo scontro con i magistrati e chetare eventuali timori e remore del Quirinale. Su cui, da questa sera, si saprà qualcosa in più.